venerdì 21 settembre 2018

Amarcord 14 - Incontri, Ricordi, Euforie, Melanconie

Amarcord 14
Incontri, Ricordi, Euforie, Melanconie di Giancarlo Politi

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Alighiero Boetti e Massimo Minini, 20 dicembre 1980. Photo © Giorgio Colombo, Milano.
Massimo Minini
A Parigi, da Daniel Templon


Parigi 1968 oppure 1969? Rue Bonaparte 62. Sono nella galleria di Daniel Templon, allora agli inizi, ma da subito sperimentatore curioso (solo la povertà o la mancanza di economia ti spinge verso il nuovo). Non ricordo bene se presentava una mostra di Ben Vautier (la prima che me lo fece conoscere) oppure un altro curioso artista che proponeva aromi e fumi colorati e di cui mi sfugge il nome, però molto interessante. Io eccitatissimo davanti a queste novità, anche se in Italia (allora vivevo a Roma) non mancavano alcuni giovani artisti molto innovativi e che si affacciavano al successo che poi avrebbero mantenuto per anni: dopo Mario Schifano e la Scuola di Piazza del Popolo (appunto Schifano, Tano Festa, Giosetta Fioroni, Franco Angeli, i divi e i protagonisti della dolce vita romana), si stavano imponendo Pino Pascali (deceduto prematuramente nel 1968), Jannis Kounellis e stava per apparire sulla scena Gino De Dominicis. Mentre a Milano, oltre a Piero Manzoni che aveva già compiuto il suo ciclo, operavano Enrico Castellani e Luciano Fabro. A Torino invece stava esplodendo l’Arte povera con Germano Celant, implacabile timoniere di un gruppo formato da Giovanni Anselmo, Mario Merz, Giuseppe Penone, Michelangelo Pistoletto, Alighiero Boetti, Giulio Paolini, con propaggini a Roma (Pascali, Ceroli, Kounellis) e Bologna (Pier Paolo Calzolari, un po’ appartato ma bravissimo – di lui me ne parlò Mario Schifano per una leggendaria mostra allo Studio Bentivoglio, con dei colombi che volavano). E poi Genova con Emilio Prini che forse ha anche svolto un ruolo da regista con la Galleria La Bertesca di Masnata. Ma non lo sapremo mai. Perché in realtà, con l’articolo-manifesto di Germano Celant, Appunti per una guerriglia, apparso su Flash Art nel 1967, l’Arte povera era già stata battezzata e ormai consacrata. La situazione artistica italiana di quegli anni era tra le più vivaci in Europa, tant’è che la scena europea manifestava un reale interesse nel monitorare alcuni artisti e gallerie italiane.

Ma Parigi è sempre Parigi e, soprattutto allora, seguivo con Getulio Alviani almeno mensilmente, l’attività della galleria Denise René con i suoi Max Bill, Vasarely, Soto, Cruz-Diez, Yvaral, ecc. Eravamo presenti a ogni inaugurazione. Ma, oltre a Denise René, io curioso come una scimmia quale ero, molto spesso mi avventuravo alla ricerca di novità in altre gallerie circostanti. E Rue Bonaparte è una traversa di Boulevard Saint-Germain, il cuore della Parigi dell’arte, dove al numero 196 c’era la sede della galleria di Denise René. Dunque non era difficile cercare sollecitazioni emotive e intellettuali nell’area di soli cinquecento metri, il cui epicentro era la mitica Rue Jacob, sede della rivista Tel Quel (Éditions du Seuil), dove l’intellighenzia francese ed europea si era raccolta per interpretare il futuro del mondo (Philippe Sollers, uno dei fondatori, e critici e pensatori come Julia Kristeva, Roland Barthes, Jacques Derrida, Michel Foucault, Georges Bataille, Tzvetan Todorov, Umberto Eco, ecc.) e dove nei pressi avevano aperto le nuove gallerie più propositive, come Yvon Lambert e appunto Daniel Templon.

Arriva con una valigetta da rappresentante Massimo Minini
Io, con una valigetta contrassegnata da Flash Art, parlavo con Daniel Templon, giovanissimo gallerista allora ventiquattrenne, quando mi si avvicina un giovane mingherlino, timido e apparentemente impacciato. “Lei è Giancarlo Politi? Io sono Massimo Minini, da Brescia, e sono un appassionato lettore di Flash Art. Volevo solo conoscerla, salutarla e complimentarmi con lei”. Una stretta di mano, un ringraziamento formale e via, mentre io continuo a parlare con Daniel Templon che mi illustrava egregiamente la mostra. Poi scopro che prima di ogni mostra, Daniel si faceva spiegare (sino ad impararlo a memoria) esattamente cosa dire su ogni artista o mostra ai suoi visitatori da Catherine Millet, astro nascente della critica e della letteratura francese e allora sua compagna. Fraternizzai con Daniel, di cui divenni amico e frequentatore assiduo della galleria (trascorremmo insieme anche alcune estati a Nizza), al punto che qualche anno dopo, quando lui decise di aprire una galleria a Milano, in via Monte di Pietà – forse anche su mio incoraggiamento poiché avevo inviato da lui alcuni collezionisti che conoscevo, soprattutto per promuovere Ben Vautier – fui costretto a intestarmi il contratto della galleria stessa, perché la proprietaria dell’immobile non volle intestarla a Templon, in quanto cittadino straniero e senza referenze italiane. Daniel mi passava l’importo dell’affitto che io giravo alla proprietaria della galleria. Forse un giorno racconterò le mie frequentazioni con Daniel Templon, che durarono una decina di anni.

Nelle gallerie romane, quando chiedevo la pubblicità, scoppiavano a ridere!
Io, come detto, allora abitavo a Roma, in Via Fontana Liri 27, sulla via Prenestina, un bell’appartamento che avevo ottenuto in affitto dalla moglie di un famoso palazzinaro dell’epoca, in cambio di qualche opera e che ovviamente utilizzavo anche come redazione di Flash Art. Ma Roma mi stava stretta, non per l’atmosfera artistica, che era bellissima (ogni sera a cena con Alberto Burri, Piero Dorazio, Jannis Kounellis, Pino Pascali, o Sergio Lombardo che abitava proprio accanto a Piazza del Popolo. E un paio di volte anche con l'inavvicinabile Cy Twombly, a casa di suo cognato il Barone Giorgio Franchetti, e una volta insieme a Paolo Sprovieri, sulla sua barca). Allora, ma forse anche oggi, a Roma si viveva splendidamente in centro, se eri benestante o ricco. Soprattutto con una rivista d’arte – l’unica in Italia – che ti dava lustro e notorietà. Ma con i galleristi di allora che frequentavo perché in sintonia con Flash Art, cioè Plinio De Martiis della galleria La Tartaruga, Gian Tomaso Liverani de La Salita e Fabio Sargentini de l’Attico, se si parlava di pubblicità nella rivista, si mettevano a ridere. Presuntuosi e poco generosi con tutti. Anche perché intelligenti ma improvvisati, non immaginavano che potesse esistere la pubblicità per una galleria d’arte, considerata da loro come un luogo sacro, un tempio della cultura, mai una struttura anche commerciale. Il solo che fece un piccolo gesto fu Fabio Sargentini che, in cambio di alcune pubblicità, mi offrì un atipico Asger Jorn (difatti sembrava un Rotella) che possiedo ancora perché non appetibile. Per il resto buio pesto. Ma io ero molto determinato e sicuro del mio prodotto per cui iniziai a frequentare Milano e Torino, con qualche modesto risultato economico. Ricordo una frase, ironica ma non tanto, che mi disse Giulio Carlo Argan, mitico storico dell’arte e per alcuni momenti anche critico militante e sindaco di Roma: “Vedi Politi, nell’arte, quando io sento parlare di denaro, prenderei una pistola e sparerei”. A Roma, a quei tempi, il mercato era guardato con sospetto, quasi fosse un malaffare, soprattutto dalla critica accademica. Certe posizioni teoriche di Venturi, Argan, Calvesi, de Marchis, Brandi, Ponente, mi ricordavano il Savonarola e le sue invettive contro il potere temporale. I critici accademici guardavano il mercato d’arte e la pubblicità, come opera del diavolo. E le gallerie più innovative erano sulla stessa lunghezza d’onda. Non ricordo mai di aver sentito da Lo Savio, Kounellis, Pascali, che avevano ricevuto del danaro dalle gallerie. Il rapporto tra artista e gallerista si basava su concetti quali fede e speranza, l’artista doveva essere felice di aver esposto. Il gallerista teneva gli introiti per una eventuale vendita e le opere. Nessuno escluso. La sola galleria, gestita ottimamente con un criterio commerciale, era la Marlborough in via Gregoriana, allora diretta dalla efficientissima Carla Panicali e che rappresentava Fontana, Burri, Dorazio, Perilli, ecc. oltre agli stranieri della grande Marlboro di allora, il primo network artistico degli anni ’60, con sedi a Roma, Londra, New York, Madrid, Barcellona.


Da Roma, a bordo della 4 cavalli, carico come un somaro, sbarco a Brescia

Per me, la svolta avvenne quando il grande collezionista di allora, Guglielmo Achille Cavellini, mi invitò a Brescia a sue spese, per vedere la sua collezione. Poi scoprii che in realtà voleva mostrarmi le sue opere. A Brescia conobbi un artista, Valentino Zini, molto bravo ma troppo timido per imporsi sulla scena, che aveva esposto anche con Piero Manzoni ed Enrico Castellani. Pio Monti, molto spesso al mio seguito oppure io al suo nelle peregrinazioni, rilevò una piccola galleria a Brescia che faticosamente Valentino Zini portava avanti e iniziò una scoppiettante attività con mostre di artisti cinetici e concreti (Albers, Morellet, Alviani, ecc.) ma ma anche comportamentali, come Fabio Mauri (la famosa performance “Ebrea” nacque nella Galleria Acme Studio di Pio Monti a Brescia) e Claudio Cintoli. Tramite Zini conobbi un serio collezionista, Antonio Spada, con cui nacque anche un certo rapporto di amicizia, malgrado lui fosse un finanziere e si sa, i grandi finanzieri sono esseri a sangue freddo, come i serpenti. Di umano hanno solo l’aspetto esteriore. Io gli suggerii anche qualche artista da acquistare per cui, in breve tempo, da collezionista locale divenne un collezionista internazionale (con bellissime opere di Pollock, Mark Rothko, Franz Kline, Barnett Newman, oltre a giovani come Paolini, Pistoletto, Zorio, Kounellis e altri. Una collezione fantastica che qualche anno dopo, in seguito a una rapina subita in casa, svendette al gallerista Paolo Sprovieri di Roma).
Antonio Spada, noto professionista a Brescia, aveva accanto al suo ufficio un appartamentino di due stanze libero e me lo offrì, invitandomi a lasciare Roma e trasferirmi a Brescia. Cosa che feci immediatamente: caricai tutti i miei stracci e il piccolo archivio di Flash Art su una quattro cavalli e da Roma senza nemmeno uno stop (forse uno per il rifornimento di benzina?) mi fermai a Brescia, abbandonando appartamento, mobili, copie della rivista e tutta la mia corrispondenza cartacea. Senza mettervi più piede per oltre dieci anni, frustrato dalle vessazioni subite anche dalle persone più più vicine e insospettabili (il mio avvocato rubò una parte della mia piccola collezione; la mia vicina di casa si appropriò di alcune opere di Schifano, Festa, Kounellis, senza mai restituirmele; gli stampatori che mi presentavano un preventivo per stampare Flash Art e poi alla fine i costi erano triplicati, consegne ritardate o mai effettuate, copie della rivista tenute in ostaggio se non saldate immediatamente e in contanti, e così via). E questa fu anche la ragione (dolorosa per me) di aver perduto il contatto con compagni di vita che mi avevano dato molto, come Emilio Villa, Gino Marotta, Giovanni Carandente, Claudio Cintoli, Claudio Verna, Sergio Lombardo, ma anche Schifano e Tano Festa. E in parte anche con Alberto Burri, che però visitavo saltuariamente a Città di Castello, quando mi recavo a Trevi.
Brescia era per me la location ideale: zero costi di affitto, spesso invitato a pranzo o cena da Antonio Spada, Achille Cavellini e altri amici, un’ora di distanza da Milano, dove almeno una o due volte la settimana mi recavo, in giro per gallerie, mostre, artisti.
Mentre da solo, senza nemmeno una segretaria o assistente, lavoravo nel bellissimo appartamentino di Antonio Spada, vedo entrare quel giovane che uno o due anni prima mi si era presentato alla galleria Templon a Parigi: Massimo Minini da Brescia. E così, da allora iniziò una frequentazione con Massimo con un cappuccino ogni mattina. Mi pare che lui frequentasse l’Università a Milano, ma nel frattempo lavorava nella ditta di suo padre che vendeva piccoli mobili a negozi e supermercati. Lui cercò di allargare il giro di affari di suo padre girando per l’Europa (spesso con me) a offrire questi prodotti ai supermarket o grandi magazzini locali (ricordo che un suo cliente era la grande Galerie Lafayette di Parigi, a cui Massimo vendeva porta riviste, qualche sgabello o accessori da bagno: prodotti che lui poteva caricare in macchina e mostrare agli eventuali clienti, spesso con buoni risultati). Con questo lavoro Massimo era un ragazzo economicamente indipendente. Grande appassionato d’arte e intelligente, anche se allora possedeva una conoscenza ancora provinciale dell’arte.

Da Brescia a Milano, senza soldi ma con grandi speranze
Quando mi trasferii a Milano – dopo aver accettato, anche in questo caso, un ufficio offertomi generosamente da Achille Mauri, fratello di Fabio e successivamente, in Viale Piave, ospite di Gino Di Maggio – Massimo Minini si offrì di lavorare per Flash Art, con una generica mansione di manager (all’epoca nessuno dei due sapeva cosa significasse). Figurarsi, io da solo e Massimo general manager. Di cosa? In realtà si occupava di trascrivere i nomi e gli indirizzi degli abbonati, cercare (senza alcun successo ahimè) qualche pubblicità e accompagnarmi nei viaggi in Europa. In uno di questi viaggi ci fermammo alla galleria Annemarie Verna a Zurigo, dove io acquistai per una cifra irrisoria, due piccole opere di Robert Ryman. Una delle quali mi fu chiesta da Massimo come stipendio del mese: con mia e sua felicità.
In un nostro viaggio di lavoro in Germania, bisticciando con un portiere d’albergo che ci aveva riservato una stanza diversa da quella prevista, arriva la polizia con dei cani lupo al guinzaglio. Io da italiano esagitato mi scaglio contro il poliziotto, il quale con una semplice mossa di karate mi getta a terra. Da terra vedo i due cani lupo sfiorarmi il viso, mentre il poliziotto sorrideva. Massimo Minini, vicino a me, era allibito e voleva scappare. Pensava di essere perseguito anche lui e di dover tornare a Milano da solo. Invece il poliziotto con un sorriso gentile mi aiuta ad alzarmi, chiedendomi scusa, e redarguisce il portiere per avermi assegnato una stanza diversa. Io e Massimo restammo sconvolti e io abbracciai il poliziotto per la tolleranza, il quale versò anche qualche lacrima di commozione di fronte al mio abbraccio. Incredibile vedere un poliziotto tedesco lacrimare di commozione. Comunque un tale comportamento è rimasto per me sempre un fatto inspiegabile, avendo conosciuto, in altre circostanze, il rigore e il sadismo della polizia tedesca.

Io la cicala, Massimo Minini la formica
Massimo, oltre ad essere intelligente, era una persona spartana e ordinata: mentre io ero la cicala, lui era la formica. Io sprecavo, lui raccoglieva. Raccoglieva e metteva via tutto. Dalle fatture degli hotel o ristoranti, alle scatole di fiammiferi, forse anche gli stuzzicadenti e i sottobicchieri dei boccali di birra. Ogni souvenirs per lui era occasione di collezionismo ma soprattutto di ricordi, che ancora custodisce.
In occasione di Documenta 5 nel 1972, Gino Di Maggio ci prestò un furgoncino della sua ditta di pulizie per portare a Kassel cinquecento valigette con la scritta Flash Art, progettate da Pio Manzù per la Fiat che, attaccando una loro etichetta all’interno, ne divenne lo sponsor e me ne regalò appunto cinquecento (la prima forma di sponsorizzazione?). Ebbene, io e Massimo alla guida di questo furgone verso Kassel, con un rumore assordante e inquietante ad ogni curva per le valigette sballottolate da un lato all’altro, passando per la Svizzera cercammo di entrare in Germania. Dove alla frontiera, con un furgone pieno di valigette e magliette di Flash Art, senza alcun documento di trasporto, ci bloccarono immediatamente. Respingendoci ovviamente in modo sarcastico, ma anche un po’ razzista. Gli italiani di allora, soprattutto in Germania, erano i magliari. Gli anticipatori dei “vu’ cumprà”.
Tentammo subito di entrare da un’altra dogana meno frequentata. Ma, anche qui bloccati senza pietà dai solerti e indignati doganieri tedeschi. Ricordo che trascorremmo la notte dormendo sui sedili di questo furgone scomodo e un po’ sconquassato: alle quattro del mattino mi svegliai e chiesi a Massimo di tentare il tutto per tutto verso un’altra dogana secondaria di non so quale sconosciuto paese della Svizzera. Avvicinandoci vedo le sbarre alzate chiedo a Massimo, che guidava, di accelerare senza fermarsi per nessuna ragione. Massimo accelera e passiamo la dogana. Un istante dopo un doganiere mezzo addormentato si affacciò sulla porta, sbracciandosi e urlando. Forse con una pistola in mano per spaventarci.
Ma noi, in quell’alba che non era ancora spuntata di quel 29 giugno del 1972 eravamo in Germania e correvamo felici verso Kassel. Con Massimo ci abbracciammo e ci congratulammo per la nostra incoscienza e fortuna.
A Kassel poi vendemmo poco ma distribuimmo gratuitamente molto: le nostre valigette e magliette gratis andavano a ruba. Fu comunque un grande successo promozionale per l’epoca. Un evento costruito con l’improvvisazione ma con tanta volontà e fantasia. Noi con il furgone dentro la piazza davanti al Museo Fridericianum di Kassel dove si svolgeva Documenta 5, attorniati da valigette e magliette e circondati da curiosi, che ci considerarono artisti in piena performance. Fu in quell’edizione di Documenta, curata da Harald Szeemann, che intervistammo Beuys all’interno del suo box in cui riceveva per otto ore al giorno chiunque volesse parlare con lui. E fu in quell’occasione, mi pare, che Lucrezia De Domizio incontrò per la prima volta Joseph Beuys e ne rimase folgorata, come San Paolo sulla strada di Damasco.

Massimo Minini lascia Flash Art e apre una galleria a Brescia
Il ritorno, senza valigette né magliette, tutte regalate o vendute, fu più semplice. Dopo i tre o quattro giorni dell’inaugurazione riconsegnammo a Di Maggio a Milano, il suo furgoncino, che riprese a lavorare per la sua ditta di pulizie all'Alfa Romeo di Arese.
Qualche mese dopo, Massimo mi comunica che vuole lasciare il lavoro a Flash Art (non è mai stato licenziato, come leggo in qualche sua biografia inventata, anche perché non fu mai assunto: fu una libera collaborazione; a Milano Massimo dormiva a casa mia, in via Macchiavelli 30, a duecento metri dallo studio di Vincenzo Agnetti e giravamo il mondo assieme, in cerca di novità artistiche come due lupetti affamati). E la collaborazione fu interrotta in totale accordo, perché Massimo voleva tornare a Brescia e, forte dell’esperienza che aveva fatto con Flash Art e dei contatti acquisiti (Massimo era un supremo collezionista di biglietti da visita), voleva aprire una galleria d’arte giocando in casa.
E nel 1973, nasce Banco, la galleria di Massimo Minini, un piccolo locale al centro di Brescia, fatto su misura per lui, collezionista appassionato anche di inviti, cartoline di auguri, conti dei ristoranti o alberghi, scatole di fiammiferi usati, conchiglie raccolte con artisti. Dopo un inizio un po’ faticoso ma già con qualche successo, Massimo si trasferirà nella sua attuale sede, che nei piani superiori è un labirinto delle sorprese, con un archivio straordinario ma anche da far accapponare la pelle. Chi e come gestirà questo patrimonio morale, personalissimo, quando Massimo si ritirerà? Dalle dimensioni e classificazioni ordinate, io direi che nessuno potrà gestirlo. Lui ricorda come nasce ogni scontrino, i suoi inviti sono ordinati secondo una sua logica precisa, le cartoline sa da chi e perché provengono. 

Massimo Minini: gallerista o mercante?
Un patrimonio che è il risultato di frequentazioni, passioni e amicizie spesso lunghe una vita. Io ho sempre evitato di avere archivi perché questi sono sempre legati alla persona che li crea. E io sapevo che sarebbe stato difficile gestirli per me, impossibile per altri. Dunque, ho gettato tutto al vento, le migliaia di lettere di artisti, foto personali con i grandi protagonisti della storia dell’arte, cataloghi dedicati. Sapevo bene quanto fosse faticosa e impegnativa una simile gestione, per essere poi gettato nella spazzatura al momento della mia scomparsa. Ma è la natura di tutti gli archivi, a meno che non vengano venduti per tempo. Massimo è rimasto fedele a tutti i suoi artisti, i quali, anche se non più fedeli, mantengono un ottimo ricordo di Massimo.
Passo dopo passo Massimo ha percorso, grazie alla sua affidabilità, alla sua discrezione ma soprattutto grazie alla sua determinazione, tutte le tappe di una galleria di successo con artisti come Giulio Paolini, Peter Halley, Vanessa Beecroft, Daniel Buren, Jan Fabre, Anish Kapoor, Sol LeWitt, Ettore Spalletti, e decine e decine di altri. Anche se il percorso compiuto ci fa capire che Massimo non è mai stato un gallerista, bensì un oculato mercante: fedele agli artisti ma mai loro referente, forse anche per la posizione decentrata della sua galleria.   
Il grande miracolo che ha compiuto Massimo Minini è stato quello di sembrare un ottimo gallerista. Anche se in realtà è sempre stato un mercante. Ma ha sempre trattato con amore e passione l’arte, le opere e gli artisti da apparire a tutti un gallerista. Anche se per scelta o necessità, lui non ha mai rappresentato un artista.
Ultimamente è passato a trovarci in redazione (in Via Carlo Farini 68) di passaggio verso la Triennale.
Ecco, Massimo è anche questo. Aveva percorso a piedi gran parte di Milano, sotto la calura di luglio, per bere un bicchiere d’acqua e sfogliare i primi numeri di Flash Art, sua antica dimora.
Forza Massimo! Ancora molti anni di lavoro fecondo e felice, come è sempre stato il tuo.

Contributi

Luciano Marucci
Caro Giancarlo,
al tempo in cui Beuys comparve sulla scena artistica, sicuramente non furono ben comprese le ragioni della sua attività e a molti sembrò più un folle che un creativo sui generis. I testi in tedesco non facilitavano, mentre la sua opera era fondata proprio sulla comunicazione. I multipli, dalle caratteristiche speciali, anch’essi concepiti per diffondere il suo pensiero filosofico, non avevano un vasto mercato. Beuys li vendeva, a basso prezzo, attraverso l’editore politicizzato Klaus Staeck di Heidelberg (che io frequentavo), pure per finanziare la Free International University.
Senza dubbio Joseph aveva una individualità fin troppo polarizzante, così da condizionare o da oscurare le ricerche di altri artisti, creando anche antipatie. In Italia chi ha creduto di promuoverlo, secondo me ha provocato l’effetto contrario, per cui ora si parla poco di lui. Da uomo libero e idealista, quando doveva attuare significative operazioni pubbliche per lanciare altri messaggi, tendenti a plasmare la Soziale Skulptur, era disponibile. Per fortuna in Germania qualcosa si muove per ridare all’artista il ruolo che merita.
Certamente la strategia di Celant (che hai lodato) per imporre il gruppo torinese, seppure in ritardo ha funzionato, ma ritengo che anche le coinvolgenti e articolate azioni simboliche di Beuys, incentrate sulle discussioni pubbliche per l’organizzazione della democrazia diretta e per la difesa della natura, abbiano generato un clima favorevole all’evoluzione dell’arte visuale in una determinata direzione e legittimato l’uso di alcuni materiali poveri. Penso allo sviluppo che hanno avuto dopo di lui le opere oggettuali, installative, performative e quelle seriali dalle componenti eterogenee. È vero: ogni mossa di Beuys era studiata per accrescere il mito di sé, in veste di “pescatore di anime”. Ovviamente, dopo la scomparsa, la produzione non più vivificata dai suoi gesti e priva di autorevoli sostenitori, ha subìto un calo di attenzione.
I’m looking forward di rileggerti e di rivederti presto.
Luciano Marucci

Luciano, le tue riflessioni su Beuys non sono superflue… Certe operazioni attuate con lui non lo hanno reso simpatico. Molto più serie e costruttive, invece, quelle di Klaus Staeck, legate anche al Partito dei Verdi tedeschi, di cui Beuys fu co-fondatore e protagonista. Insomma, queste esperienze e altre mi hanno condizionato negativamente anche su Beuys, che a volte si lasciava manipolare. I miei ricordi? Vanno a sprazzi e si incentrano sui dettagli. Ma niente storia dell’arte perché gli errori, le dimenticanze e le sviste fanno parte di “Amarcord”, anzi ne sono il succo. Non ho mai avuto la pretesa e l’ambizione di riscrivere la Storia dell’arte. Gli Amarcord sono ricordi di un ottuagenario, con libertà di sbagliare. Dopo oltre sessanta anni di vita vissuta, i ricordi si accavallano, si intrecciano, tendono a confondersi. Anche se io con certi meccanismi psicologici cerco di focalizzarli al meglio. Qualche data può essere sfasata di un anno o due, ma ciò che scrivo è frutto degli incontri della della mia vita. Incontri, dati e fatti realmente accaduti. E nella maggior parte dei casi verificabili.

Andrea Pizzi
Giancarlo,
gli Amarcord sono un’invenzione meravigliosa. Piccole schegge della Tua conoscenza senza fine del mondo dell’arte di questi decenni. Grazie
Avv. Andrea Pizzi

Grazie Andrea. La tua solidarietà mi dà forza.
Talvolta le mie autoanalisi mi costano fatica. Spesso molta. Ripercorrere momenti, itinerari, paesaggi, incontrare ancora con la memoria persone di cinquanta, talvolta sessanta anni fa, può essere, oltre che faticoso anche doloroso.

Boris Brollo
Caro Giancarlo i padri biologici o naturali si uccidono freudianamente, mentre quelli spirituali si cancellano. Ti abbraccio.
Tuo Boris

Padre naturale o putativo, le stilettate non fanno mai piacere.

Annalisa Avon
Gent. Giancarlo Politi,
stavolta l’Amarcord  è un po’ prolisso, di solito la leggo con piacere, ma per una star come Bonami mi sembra un po’ troppo, non ho  mai compreso quali siano i suoi meriti, artista mancato e critico dell’establishment, curatore dei ricchi, non mi importa granché,
Comunque aspetto sempre i suoi Amarcord, di cui le sono grata,
Annalisa Avon

Cara Annalisa,
Credo tu sia una giovanissima. Col tempo imparerai a capire che l’arte (almeno il possesso) è per i ricchi. A noi poveri viene concesso (quando viene concesso) solo il godimento. Quando io posso andare a Punta della Dogana o a Palazzo Grassi o alla Fondazione Prada, dove secondo me viene proposta l’arte dei ricchi, che piace però anche ai poveri, io sono felice. Dunque, perché tanto livore nei confronti di Francesco Bonami? Ha svolto il suo lavoro di curatore in modo eccellente, come pochi altri. Probabilmente l’arte di cui ti occupi tu è un’arte di proposta, che quasi certamente non sboccerà mai. Ma il piacere della scoperta, da giovani, resta un grandissimo motore che ti fa sentire importante. E non ti capisco quando imputi a Bonami di essere il “curatore dei ricchi”. Ma certo, i poveri hanno altro di cui occuparsi e curarsi. Non sempre piacevole come curare una mostra. 

Chiara Pergola
Buongiorno Giancarlo,
grazie per questa serie di ricordi che allietano da qualche mese le mie colazioni; un piacere antico, la lettura della posta del mattino!
Grazie in particolare per aver citato l'articolo di Francesco Bonami, Motivi di Famiglia, che mi fa pensare ante litteram alla "Nonni/Genitori Foundation" di Luca Rossi (in fondo, tra i vari nomi che rivestono questa identità, perché non includere anche Bonami?). Penso che il tema sia ancora di grande attualità: vorrei includerlo tra i riferimenti bibliografici del tavolo del Forum dell'Arte Contemporanea che coordino assieme a Stefano W. Pasquini sul tema "Sistemi correnti e alternative di mercato per l’arte". Cari saluti,
Chiara Pergola

Chiara, complimenti, hai un bel coraggio a coordinare un Forum sul mercato dell’arte. Che in fondo nessuno sa bene cosa sia. Eccetto forse dieci guru mondiali (ma ho anche alcuni dubbi). I quali comunque sbagliano spesso. Io frequento l’arte da sessanta anni, sono stato vicino ad Argan, Burri, Fontana, Manzoni, Rauschenberg e Leo Castelli e poi tutti gli altri. Ho conosciuto e frequentato, uno ad uno, tutti i maggiori artisti dell’altro secolo e in parte di questo. Eppure non ho ancora capito cosa sia l’arte ma soprattutto come funzioni il mercato dell’arte. Ho solo qualche opinione. Sempre smentita dai fatti. Sono appena tornato da Praga e ho visto una grande mostra di Jiri Kolar (di cui parlerò). Per chi non lo conoscesse Kolar è stato uno dei più grandi artisti del secolo scorso. Due o tre mostre personali al Guggenheim, al Centre Pompidou e numerosi altri musei e gallerie private. Eppure non esiste sul mercato. Le grandi aste lo rifiutano e quando lo trovi, costa mille o duemila euro. Eppure le grandi gallerie commerciali vanno a riscoprire artisti minori e talvolta inesistenti, degli anni cinquanta e sessanta. E tu hai il coraggio di organizzare un Forum sul mercato d’arte? Complimenti e auguri.

Gaetano Grillo
Caro Giancarlo
Mi fa piacere che tu abbia menzionato "Stazione Centrale" la mostra che curò Enzo Cannaviello nella sua galleria di Via Cusani nel gennaio del 1985, dico mi fa piacere perchè su quella stagione è stato steso un velo di nebbia durante tutti questi lunghi anni, anche dallo stesso Cannaviello.
Nei fatti a Milano nei primi anni '80 c'era un bellissimo fermento animato da vari galleristi fra i quali c'erano anche Giorgio Marconi, Franco Toselli e soprattutto Salvatore Ala che da New York portò per la prima volta i "graffitisti" di Tony Shafrazi. Purtroppo Roma faceva muro con Bonito Oliva e la "Transavanguardia" tanto che ne soffrirono pure tutti gli stessi artisti romani dell'ex pastificio Cerere. Alcuni romani come Gianfranco Notargiacomo puntarono su Milano dove Flavio Caroli in quel periodo aveva prodotto alcune mostre molto interessanti. Flavio infatti oltre a "Magico Primario", "La Nuova Immagine" e "Testuale" aveva anche curato "Una Storia Milanese" alla Rotonda Besana (forse l'ultima mostra di gruppo a cui partecipò Francesco Bonami artista). 
Achille era molto forte, sicuramente più convinto e determinato di Renato Barilli con i "nuovi Nuovi", di Maurizio Calvesi con gli "Anacronisti", più forte di Filiberto Menna dello stesso Italo Mussa, Luciano Caramel e di altri ma la vera ragione per la quale su quella stagione italiana è sceso un velo è che Flavio Caroli aveva preferito il ruolo di prestigioso storico dell'arte e si era defilato, che Franco Toselli per varie ragioni si era concentrato solo su De Maria, che Salvatore Ala chiuse la galleria di Milano, che Giorgio Marconi non muoveva abbastanza artisti come Maraniello, Spoldi, Esposito e che Enzo Cannaviello non era mai abbastanza convinto di noi. Basta dire che andammo insieme a New York io ed Enzo Cannaviello proprio per la mostra personale di Francesco Bonami alla Galleria Sharpe, nell'East Village, io avevo venduto tre opere ad un gallerista di New York, Arcangelo stava riscuotendo un notevole successo in Svizzera e Germania e noi come gruppo "Stazione Centrale" avevamo iniziato a lavorare anche con la Galleria Wirth di Zurigo con una mostra curata da Angela Vettese; a FORUM di Amburgo e ad Art Basel i nostri lavori riscuotevano un notevole interesse ma tutto questo non bastò per difendere e promuovere quella situazione e ognuno di noi cercò vie solitarie. Sarebbe il momento di ricostruire la storia di quegli anni visto anche che da molte parti si dice che è arrivato il tempo di rendere giustizia agli anni '80 e Flash Art ne è stata la più prestigiosa testimone. Affettuosamente
Gaetano Grillo

Gaetano,
Grazie per questo bell’excursus sugli anni ’80. Succinto e corretto.
Ma, anche a te dico che il sistema dell’arte mi sfugge. C’è una guida suprema? Chi lo condiziona? Perché tante meteore e troppe dimenticanze e buchi del passato e trascuratezze sul presente? Non so se qualcuno sarebbe in grado di rispondere alle mie domande. Io non ci riesco.
In quanto agli anni a cui tu accenni, le gallerie italiane, né allora né mai, hanno avuto la forza di sostenere un artista. Sono state capaci di spremerne qualcuno e poi abbandonarlo. Ti ripeto, è un sistema che non capisco e da cui ormai rifuggo. Alcuni mesi fa una primaria galleria italiana esponeva Gianfranco Baruchello, chiedendo trentamila euro per opere degli anni ’60. Stesse opere in asta, invendute a 2.500 Euro. Tu sai darmi una spiegazione?  

Mauro Corbani
Giancarlo Politi...padre dei molti ora quotati curatori/critici dell’Arte Contemporanea nel mondo. I successi costano fatica: da figlio a padre inevitabili son i passaggi di crescita. Loro te lo devono un riconoscimento…ringraziandoti ! Ricordo bene ogni passaggio fino alle prime avvisaglie di stridente dissenso dalle pagine della tua “creatura” con Bonami … verità documentate! Mi piacerebbe anche un focus su Andrea Bellini…forse lo farai? Continua a deliziarci! Resti l’unico che ci racconta la vera storia della nostra arte/cultura contemporanea attraverso il tuo originale “ricordare”. Un abbraccio a te & Helena e Gea!

Caro Mauro, grazie. I miei Amarcord nascono per caso e per improvvise luci che si accendono. Non riesco a programmarli. In redazione me ne chiedono uno su Pino Pascali, di cui il 20 settembre ricorre il cinquantesimo della morte: ho frequentato e sono stato amico di Pino, ma essendo lui morto nel 1968 ho pochi e sfuocati ricordi. Qualche nostra cena nei pressi di Piazza del Popolo, qualche visita al suo studio mentre lavorava, la sua contestazione alla Biennale del 1968. Non riesco ad accendere altre lampade. Anche se ci proverò. 

Silvia Ionna
Buongiorno Dr. Politi,
leggo sempre con grande attenzione e grande piacere i suoi pezzi sia per la forma, sia per il contenuto ricco di particolari molto interessanti.
Scorgo nei sui articoli una curiosità ed una competenza inusuali nel mondo dell'arte attuale, dove tutti vogliono scrivere, infischiandosene  di produrre qualcosa che valga la pena leggere. Sono stata colpita dalla storia di Bonami e dell'opportunità che lei gli regalò di diventare American Editor di  Flash Art. So che il suo giornale è elitario e raffinato e anche se non vivo a New York, non parlo benissimo l'inglese  e non mi chiamo Bonami, mi piacerebbe moltissimo scrivere per voi. Non ho la presunzione di credere che ogni mio pezzo valga la pena di essere letto interamente, ma ho la presunzione di credere che in essi  ci sia qualcosa di interessante! 
La saluto caramente
Silvia Ionna

Cara Silvia, ma io sono il padre di Flash Art, non mia figlia Gea che ora se ne occupa. Invia le tue proposte a lei (geapoliti@gmail.com) ma soprattutto a Giulia: giulia@flashartonline.com. Loro potranno dirti se sono interessate o meno. Io attualmente svolgo un altro lavoro: pensionato (senza pensione). Io non ho regalato nulla a Bonami. Ho puntato su di lui. Nel lavoro deve succedere.

Sabina Melesi
Buongiorno Giancarlo,
deve fare un libro di tutto questo, è troppo bello. Grazie.
Sabina Melesi

Grazie Sabina. Vedremo. Ora ne sto preparando uno su Jiri Kolar (e anche Bela Kolarova, sua moglie, bravissima artista un po’ schiacciata dal marito ma che ora si sta vendicando con un successo che surclassa quello del grande Kolar) e Praga degli anni ’70. Ma è troppo lungo (poi sarà certamente un libro), legato alla mia storia d’amore con Helena, con incontri segreti con tutti i dissidenti e i firmatari di Charta 77. E alcune serate con Havel che mi raccontava che da bambino era grasso, quasi obeso e tutti lo dileggiavano a scuola. E lui, ricchissimo, con autista e servitù, invidiava i bambini poveri e scalzi. Avrebbe voluto essere uno di loro. Sto pensando di pubblicarlo in due o tre puntate. Ma non so quanto i lettori possano apprezzare un testo così lungo e su personaggi poco noti nel nostro paese.

Antonello Tolve
Grazie Giancarlo,
I tuoi Amarcord sono davvero luminosi, una piccola storia dell’arte contemporanea che non si trova sui libri: e proprio per questo assolutamente unica, esclusiva, preziosa. Un caro saluto e spero a presto, Antonello.

Grazie Antonello. A presto spero, da qualche parte.

Nikolinka Nikolova 
Buongiorno sig. Politi, 
Io sono una dai tanti artisti che nuotano in questo mare di squali e pesci colorati ... Leggere le sue memorie è pari ad un film. Il suo racconto è la medesima conferma che niente nella vita è casuale, è importante trovarsi al luogo giusto nel momento giusto. Il talento e le capacità artistiche sono relative. Non so se io mi troverei mai nel luogo giusto nel momento giusto ... ma quello che creo è ciò che sono. Magari un giorno qualcuno si accorgerà che tra migliaia di artisti dei giorni nostri ci sono anche quelli che sono oltre agli anni 60...70...80.. e cercano di fare un'arte nuova mettendo il genio non riproporre arte già fatta  (revisionata qualche volta) perché di moda ... La ringrazio per essere nella sua lista mail e poter leggerla. Colorati Saluti 
Nikolinka Nikolova 


Cara Nikolinka, ritieniti fortunata per ciò che fai. Avere la possibilità di fare l’artista è un grande privilegio oggi. Che ti porta felicità e benessere spirituale. Non pensare ai treni persi. Ce n’è sempre uno in ritardo che ognuno di noi può prendere. 


Antonio Carbone
Caro Giancarlo,
La riconoscenza nel mondo dell'arte è un termine sconosciuto , nella societa' attuale è stato "esondato”. Al prossimo Amarcord, con grande stima.
Antonio Carbone 

Carlo Ciarli
Ciao Giancarlo! Eccomi ...
... sono uno dei tanti che applaudono al successo dei tuoi Amarcord.
Sarò felice di incontrarti.
Ti chiamerò la prossima settimana al tuo ritorno da Firenze.
Carlo Ciarli

Apollonia
Caro Giancarlo,
i tuoi AMARCORD, di Felliniana memoria, sono immaginifici! Hanno un tale potere evocativo che invitano il lettore sensibile, l'artista "avvertito" ad abitare quei luoghi da te vissuti o solo visitati,  tra i profumi dell' Arte, alloggiare nelle "stanze" dove ancora aleggiano l'eco delle risate e le urla d'artista. A proposito di BUREN ed Alberto Fiz, ho conosciuto entrambi, il primo ha realizzato una superba e ludica installazione, com'è nel suo stile a Catanzaro nella mia città nel Parco della Biodiversità, davvero notevole. Alberto Fiz lo reputo un attento critico e conoscitore d'arte, serio e professionale. Per quanto riguarda l'intervista realizzata da Fiz a Buren su FLASH ART io l'ho letta e ne conservo ancora una copia con un'opera di Buren in copertina , e non mi è sfuggito il "tono" di entrambi quando si parla dell'attuale stato dell'arte e degli artisti. Buren è molto scaltro nelle sue deduzioni, ma anche Fiz si esprime in maniera perentoria, specialmente quando attesta che oggi molte delle opere di taluni artisti sono per lo più dei  REMADE, e come dargli torto, e pare che nessuno se ne accorga pur riconoscendolo e poi nell'intervista c'è tutto il resto che tu ben conosci, l' ho letta e riletta perchè l'ho trovata genuina e senza "rete". Anche la mia esistenza è tutta un Amarcord dedicata all'Arte insieme al mio compagno di vita Alessandro Mazzitelli, sono davvero tantissimi anni. Senza decisamente non vorrei fare altro, ma questa è un’altro Amarcord. Apollonia

Mimmo Di Caterino
Collaborare con Flash Art, da qualsiasi luogo d'Italia e del mondo, vuole  e voleva dire, leggere la storia dell'arte presente; purtroppo non in tutti i luoghi del globo, la Storia dell'Arte contemporanea scorre e si muove alla stessa velocità.
 Il sistema dell'arte nell'isola dalla quale oggi ti leggo, non è lo stesso della New York di Bonami; Cagliari l'unica città metropolitana della Sardegna,non solo non ha gallerie private che possano definirsi tali, ma non ha mai conosciuto neanche Alta Formazione Artistica; te l'immagini una metropoli priva d'Alta Formazione Artistica?
T'immagini una metropoli impossibilitata a formare critici come Bonami, che per esercizio e intelligenza intellettuale, dipingano per ritrovarsi?
Mimmo Di Caterino, Cagliari

Caro Mimmo,
Ormai tu sei un interlocutore fisso anche se sembri un disco con la storia di CagliarI senza un’accademia d’arte. Anche io fui sorpreso molti anni fa di sapere che in Sardegna esisteva solo l’Accademia di Sassari.
Ma Sassari è stato il territorio di Antonio Segni, di Francesco Cossiga, entrambi apparentati con Enrico Berlinguer. E poi c’è stato un altro Presidente della Repubblica italiana di origini sarde, Giuseppe Saragat, nato a Torino ma nipote del noto avvocato Pietro Saragat, nato a Tempio Pausania. E voi volete competere con Sassari? Anche perché obbiettivamente a Sassari esiste la tradizione di una scuola politica di alto livello. Comunque sarebbe tempo che anche Cagliari avesse un’accademia d’arte, magari specializzata anche sulle nuove tecnologie.

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