lunedì 24 dicembre 2018

Amarcord 24 - Incontri, Ricordi, Euforie, Melanconie

Amarcord 24

Incontri, Ricordi, Euforie, Melanconie

di Giancarlo Politi
per intervenire, controbattere o esprimere una propria opinione scrivere a

A proposito di Amarcord

Cari amici, eccomi ancora, faticosamente a voi. A causa dell'inquinamento di Milano, che io soffro in modo particolare, i miei riflessi si sono rallentati e le mie scadenze che per oltre 20 settimane avevo osservato scrupolosamente, sono saltate. Il prossimo Amarcord uscirà a gennaio 2019. Nel frattempo andrò a respirare un po' di aria migliore  sulle colline di Vicenza ma soprattutto in Versilia.
Spero che nel frattempo mi illumini qualche ricordo non banale su cui scrivere. A tutti un grande augurio di feste serene e un abbraccio da Giancarlo Politi.   

Un dolce Amarcord da parte di Giorgio Colombo (che con il suo lavoro ha messo in piedi il più straordinario Archivio di Arte Contemporanea dagli anni 60 ad oggi), un omaggio natalizio da parte dell'amico Giorgio, particolarmente apprezzato per rievocare i nostri verdi Anni 80 a Milano. In questo caso siamo ad una mostra di Charlemagne Palestine, da Salvatore Ala.
New York Anni '80 (Parte Prima)

Gli anni '70 nella New York dell'arte (ma ovunque credo), per quanto riguarda il mercato  ma anche la creatività, furono anni di appiattimento e sofferenza economica. Dov'era finito l'entusiasmo artistico giunto alle stelle e la grande ondata di nuovi collezionisti degli anni '60 che si contendevano i primi capolavori di Jasper Johns, Robert Rauschenberg, Roy Lichtenstein, Andy Warhol, a mille o duemila dollari per rivenderle dopo un anno a 100 mila? E in casi particolari acquistare da Leo Castelli un vero masterpiece di Jasper Johns a 900 dollari, come avvenne per il direttore (e fondatore) del MoMa Alfred Barr, perché la commissione acquisti del suo museo gli aveva bocciato l'offerta ufficiale di 2 mila dollari. Alfred Barr, in qualità di direttore, poteva acquistare, senza alcuna autorizzazione, opere sino a 900 dollari. E Leo Castelli, suo grande amico ed estimatore, (ogni giovedì sera, immancabilmente, si ritrovavano a cena insieme per parlare d'arte e dei nuovi artisti insegnandosi cose a vicenda), rinunciando a qualsiasi pur minimo guadagno e convincendo Jasper Johns, glielo cedette per 900 dollari. Ora quell'opera è uno dei capolavori assoluti della Pop Art americana al MoMa. Valore? Diciamo 100 milioni di dollari? Forse molti di più. Ed è stato acquistato a 900 dollari, il prezzo di un paio di scarpe sulla Madison Avenue oggi. Ma all'epoca non era ancora avvenuto lo sbarco della Pop Art alla Biennale di Venezia, dove trionfò contro ogni aspettativa conquistando in seguito i musei, le gallerie e i mercati del mondo. Fu un successo travolgente (successo, strano a dirsi ma che per velocità e visibilità equiparabile solo a quello della Transavanguardia, sebbene con sviluppi ben diversi) che sconvolse la sacralità dell'arte e da cui nacque il sistema dell'arte di oggi e soprattutto sconvolgendo la signorile indolenza di tutti i mercanti del mondo, che consideravano questi artisti dei grossolani parvenus. 

Leo Castelli e Ileana Sonnabend durante l'installazione di "Jammers", Robert Rauschenberg alla galleria Castelli 420 West Broadway (1975) Fotografia di Gianfranco Gorgoni. © Gianfranco Gorgoni. Artwork: © Robert Rauschenberg Foundation / Licensed by VAGA, New York, NY.
La New York di Pollock e Barnett Newman lascia il posto alla Pop Art

La New York di Pollock, Barnett Newman, Rothko, con le leggendarie gallerie Sydney Janis, Marta Jackson e Betty Parsons guardava con sufficienza e un po' di disprezzo questi giovani artisti, poi definiti "pop", che grazie all'intuizione di Leo Castelli che li scoprì cercando il nuovo in giro per New York, come un cane da tartufi, iniziarono ad attirare l'attenzione dei più illuminati collezionisti americani e di alcuni musei, compreso il MoMa. Ma i loro prezzi, sino alla partecipazione alla Biennale di Venezia del 1964, che ne decretò anche il successo internazionale, erano (soprattutto a compararli con i record di oggi) molto, molto accessibili. E da Parigi la galleria di Ileana Sonnabend (moglie di Leo Castelli, certamente la vera intelligenza e stratega della famiglia) inondava con la Pop Art, le più propositive gallerie e musei d'Europa. Ma a questa decade di grande energia e di grandi artisti seguì una decade, quella del 1970-1980, di apparente appiattimento e di congelamento dell'energia e della fantasia. Le Galleria più propositive di New York, Paula Cooper, Virginia Dwan, John Weber, la stessa galleria di Leo Castelli e tutte le altre minori, erano invase dallo tsunami della nuova ondata artistica, cioè, la Minimal Art e l'Arte Concettuale, correnti apprezzate da pochissimi e sofisticati collezionisti e da una critica molto elitaria, che si era autoesclusa dal celebrare la Pop Art, secondo loro un prodotto per palati poco raffinati. Non più dunque l'energia straripante di Jackson Pollock o i colori soffusi di Mark Rothko o quelli più accesi di Barnet Newman o violenti di Frank Stella, ma pavimenti metallici pressoché invisibili e su cui camminavi senza accorgertene di Carl Andre, le strutture grigie alle pareti di Donald Judd, i quadretti opachi con le date bianche di On Kawara, i fili che delimitavano lo spazio di Fred Sandback, le definizioni dal dizionario di Joseph Kosuth. E tutt'al più i neon fluorescenti che segnavano il perimetro della galleria di Dan Flavin. Che invece  incendiarono di entusiasmo il conte Giuseppe Panza di Biumo ma non molti altri. Ricordo bene quegli anni e le gallerie deserte, con rarissimi visitatori e ancor più rari acquirenti. Gallerie che emanavano un senso di  desolazione che certo non aiutavano il morale: nè della critica più generalista dei grandi media né dei collezionisti.

Holly Solomon e Andy Warhol (1966) di fronte al ritratto di Holly. Courtesy Christie's.
 La Minimal Art e il senso di depressione a New York

Quando entravi in una di queste gallerie, avevi la sensazione di entrare in una chiesa che praticava la vera spartanità in tutti isensi. Ma l'Europa, più colta e sofisticata, era il grande serbatoio per questi artisti e una flebile àncora di salvezza per le gallerie americane. La vecchia Europa si riprendeva così la rivincita su New York che negli anni '60 era diventata la nuova protagonista dell'arte contemporanea soppiantando completamente Parigi. Il Belgio, la Germania e l'Italia (con le gallerie Sperone, Toselli, Françoise Lambert e Marilena Bonomo), erano diventate le mete abituali di questi artisti (Sol LeWitt, Richard Serra, John Baldessari, Larry Weiner, Mel Bochner, Michael Ashley) che avevano bisogno di un riconoscimento europeo come lasciapassare a New York. Erano comunque momenti molto difficili, sia in Europa che a New York, anche se un occhio esperto avvertiva che questi artisti erano portatori di novità e di moralità nell'arte. Giuseppe Panza di Biumo e alcuni collezionisti belgi e tedeschi facevano shopping nelle gallerie di New York (e Panza di Biumo anche a Los Angeles) acquistando a prezzi di saldo opere che oggi hanno valori elevatissimi. Ricordo che queste gallerie italiane, il cui lavoro di quegli anni è stato per fortuna registrato da Giorgio Colombo, rappresentavano una forte spinta verso la depressione. Malgrado ciò, numerosi collezionisti illuminati contribuirono a sostenere le gallerie e gli artisti. Ma se le grandi gallerie newyorkesi di uptown boccheggiavano, a Soho, il nuovo quartiere dell'arte e della moda, incominciava a farsi spazio e ad avere voce, soprattutto grazie ad una nuova galleria, ls Holly Solomon, che esponeva giovani artisti che riscoprivano la gioia del colore e della vita: stava nascendo la Pattern Painting, la pittura decorativa che voleva riscoprire le proprie radici provenienti dall'artigiano degli indiani d'America. Sulla strada e nelle gallerie minori, scorgevi una esplosione di colori che turbavano l'occhio così mortificato dall'arte concettuale e minimal. E giovani artisti, uomini e donne, seduti per strada che coloravano tele e le cucivano insieme, ricordando appunto le donne indiane nel loro lavoro domestico. Iniziavano così, un po' in sordina ma anche con sorpresa, gli anni di celebrità (fugacissimi) di Robert Kushner, Robert Zakanitch, Valerie Jaudon, Kim Mac Connell, che in poco tempo divennero famosi e ricchi. Dall'Europa arrivava in giornata il solito Bruno Bischofberger a svuotare gli studi per riempire gli uffici e le case dei suoi amici collezionisti di Zurigo e di Saint Moritz. Il fulcro di questa nuova ondata era una galleria che aveva aperto da pochi anni, proprio a SoHo: Holly Solomon. Donna di fascino, ex attrice, sposata con Horace Solomon, collezionista e appassionato d'arte, la galleria di Holly fu per breve tempo il centro della nuova arte a New York. 

Annina Nosei e Jean Michel Basquiat. Courtesy Annina Nosei.
Da Holly Solomon si avvertì il primo ritorno al colore

Ricordo che il sabato e la domenica, un'orda di appassionati d'arte, provenienti da tutta la regione di New York, si riversava su Soho, facendo credere a molti di questi giovani artisti di essere improvvisamente diventati dei geni. L'euforia fu breve, perchè il loro successo fu fulmineo e fugace: credo che l'interesse durò solo due tre anni, ma intanto, grazie a loro, il clima era cambiato e sulla scena si affacciavano nuove gallerie con proposte nuove e soprattutto tanti nuovi e giovani collezionisti che stavano diventando affermati professionisti e desideravano distinguersi arredando casa e ufficio con opere molto colorate e visibili. Erano anche gli anni in cui  la nostra Francesca Alinovi frequentava assiduamente New York, inoltrandosi con molto coraggio e tanta incoscienza in quartieri allora off limits come il Bronx e Harlem. Quando la incontravo sola, di ritorno da queste intrusioni che facevano accapponare la pelle, le chiedevo perché frequentava posti così pericolosi e vietati ai più. Sorridendo mi rispondeva che questi luoghi proibiti, con ragazzi di colore che la importunavano anche solo per offrirle una dose di LSD, questi luoghi dicevo, le davano molta adrenalina, che l'aiutavano ad affrontare la vita. Strana la sua sorte: uscita sempre indenne da Harlem e dal Bronx, gli inferni reali del momento, è invece morta nella cucina di casa sua a Bologna, dopo un pericoloso gioco con il suo fidanzato, un apparente innocuo giovane artista di provincia.  Francesca, amica di Holly Solomon, organizzò anche una bella mostra di artisti italiani, The Italian Vawe, estrapolata credo dal gruppo dei Nuovi Nuovi di Barilli, con Ontani, Salvo, Jori, Bartolini, Benuzzi, Spoldi. La mostra, molto ben curata, fu accolta benevolmente dal pubblico e dalla critica, con una buona recensione anche su Artforum. Malgrado ciò l'onda italiana non ebbe molto seguito e l'interesse per questi artisti, così ben accetti, terminò con la mostra. O subito poco dopo. New York aveva occhi benevoli solo per New York. Holly Solomon, persona aggraziata e civile, divenne, insieme a Mary Boone, la Regina di SoHo. La sua galleria e la sua casa diventarono luoghi di culto e di incontri tra artisti, critici e collezionisti. Una sorta di cenacolo nel cuore di SoHo. Ma come dicevo, l'ondata della Pattern Painting ebbe vita breve. E così, come improvvisamente erano emersi, i vari Kushner, Zakanitch, Mac Connell, altrettanto improvvisamente scomparvero. Il loro background era più da figli dei fiori che non da artisti professionisti, con le sue regole e le sue strategie. I collezionisti americani ed europei si stancarono presto di questa pittura decorativa fine a se stessa. Ma la Pattern Painting scomparve  lasciando tracce sotterranee a SoHo e in tutta Manhattan.  Un figlio della Pattern Painting, ma con una forza e originalità straordinaria, fu la nuova stella, che sfuggì agli occhi attenti di Leo Castelli invece avrebbe voluto esporlo senza riuscirci: parlo di Julian Schnabel. Che per la sua prima mostra, nel 1979, scelse il nuovo, cioè Mary Boone, la dirimpettaia di Leo Castelli al 420 di W. Broadway. Con grande disappunto di Leo che dopo la Pop Art, veniva considerato lo scopritore di nuovi talenti. Julian si presentò da Mary Boone con grandi quadri colorati e con fondi di piatti incollati alla tela. Un effetto formale e coloristico straordinario e innovativo. All'epoca si disse che Schnabel usava i piatti rotti per l'odio che aveva accumulato nei loro confronti avendo fatto, per qualche tempo, il lavapiatti. Ma se la stella di Schnabel era apparsa nel cielo di New York, una gallerista italiana, tra le più colte e intelligenti, Annina Nosei, con sede a pochi isolati da Mary Boone, stava affacciandosi sulla scena proponendo in avanscoperta, giovanissimi artisti che ben presto avrebbero preso il volo. Parlo di Jean-Michel Basquiat, Keith Haring, Jeff Koons, Barbara Kruger.  Annina Nosei fu la prima gallerista a dare fiducia a Jean-Michel Basquiat, facendolo vivere nella sua galleria, dove io e Helena lo incontravamo e dove Annina organizzò la sua prima mostra personale. Jean-Michel Basquiat era legato a Keith Haring, per le comuni esperienze graffitiste (e col nome di Samo, ebbe una personale in assoluto anticipo su tutti da Emilio Mazzoli, portato da non so chi. Forse da Annina Nosei. 
I nuovi guerrieri stellari
Ma Emilio non capì Samo, alias Jean-Michel Basquiat (ma che non era ancora diventato Basquiat) e i loro rapporti terminarono con quella mostra, di cui però Mazzoli non parla molto volentieri (bisogna dire che all'epoca non era facile capire molti artisti emergenti, soprattutto questi giovanissimi writers e grafitisti, un po' artisti e molto teppistelli, che imperversavano su New York, girando come forsennati sui pattini e con il casco, come guerrieri stellari. Mi passavano accanto a velocità sostenuta e vestiti da alieni e mi facevano impressione. Ricordo il più famoso di loro, Rammelzee, veloce come un treno, sui suoi pattini sottili che mi sfiorava entrando o uscendo da una galleria. Rammelzee negli anni '80 era considerato una grande promessa del grafitismo. Amico di Basquiat che gli aveva anche disegnato la copertina di un disco (Rammelzee aveva un ottimo successo anche come cantante), era il più famoso dei grafitisti: grande amico di Francesca Alinovi ma anche nostro, non mantenne però le premesse iniziali di artista "gotico futurista". Morì abbastanza giovane, per problemi polmonari causati dall'uso di bombolette spray, di cui aveva sempre piene le tasche.
In ogni caso New York era tornata la città dell'arte e della gioia di vivere, della vita sociale e della Factory di Andy Warhol. Tutta la vita mondana e culturale di New York ruotava attorno allo Studio 54, un'immensa bolgia che ogni sera raccoglieva migliaia di giovani e non, per drogarsi di musica assordante e di altro. Lo Studio 54 nacque da un'idea di Steve Rubel, fratello del grande collezionista Don Rubell e amico lui stesso di numerosi artisti che poi aveva invitato a decorare l'interno del grande teatro e già studio televisivo, da cui Steve aveva ricavato la discoteca più grande di New York con di diverse piattaforme per l'orchestra, piste d ballo, bar, ristoranti e angoli bui dove molti ragazzi vivevano le loro intimità e i loro malesseri. Ma esistevano zone d'ombra più tranquille dove i meno scalmanati potevano ritirarsi per un drink o per un pranzo spartano. All'ingresso due buttafuori giganteschi il giorno prima della serata a cui eravamo stati invitati, avevano respinto Madonna (non ho mai capito se con un reciproco accordo perché i giornali ne parlarono impietosamente, con enorme visibilità per Madonna e per lo Studio 54). 

Lo Studio 54, nota discoteca di New York situata tra la Settima e l'Ottava Avenue, aperta tra il 1977 ed il 1986.
Lo Studio 54, discoteca, luogo di spaccio e centro culturale

Perché questi due colossi posti all'ingresso, non so con quale criterio, si divertivano a dire tu si, tu no, dividendo spesso gruppi di amici. Ma aver trascorso una serata allo Studio 54 era per tutti i giovani e no, un titolo di merito da esibire nella New York di giorno. Noi, in compagnia di Francesco Clemente, che quella sera inaugurava un suo affresco all'interno di Studio 54, fummo dei privilegiati, malgrado l'occhio bovino di un buttafuori fissato su di me, non proprio abbigliato da Studio 54. L'energumeno mi avrebbe volentieri preso per il collo e gettato sulla strada. Avvertivo la sua frustrazione dallo sguardo feroce ammansito da una pacca di Francesco Clemente. In tal modo, sotto la  protezione di Francesco, entrammo nel paradiso artificiale della più importante discoteca del mondo, orgogliosi anche noi di poter dire a Milano Io c'ero. Io e Helena ci eravamo rifugiati in un angolo con la rispettabile e conosciutissima famiglia di Roselee Goldberg, la madre della storia della performance, per cui ci sentivamo abbastanza protetti dalle intemperanze dei cantanti che con viso truce, si aggiravano nello studio. Ed eravamo anche al riparo dei pusher che talvolta diventavano aggressivi ma che grazie a Dakota Jackson, il marito di Roselee, alto 2 metri, si tenevano a debita distanza. Tutti sapevano che allo Studio 54 non si scherzava. Nel bene e nel male. In un tavolo vicino a noi, attorniato da un gruppo di giovani amici, ma intoccabile, siedeva Andy Warhol, in silenzio, viso algido e sguardo fisso nel vuoto. Andy Warhol, scoperto anche lui da Leo Castelli, era l'uomo del silenzio, una sfinge, a cui carpire una parola, uno sguardo o un sorriso era una vincita al lotto. Ti fissava con i suoi occhi azzurri, che sembravano di vetro che ti mettevano l'angoscia. Andy era un incredibile igienista, sfuggiva nel modo più totale il contatto umano e quando Leo Castelli me lo presentò, lui si irrigidì, evitando di darmi la mano e mi disse solo " hi". Io non ho mai capito come potesse esprimere la sua omosessualità se era ossessionato dal minimo contatto umano. Mi piacerebbe parlare con qualche suo intimo. Il gallerista tedesco, Hans Mayer, suo rappresentante in Germania e anche in Italia per i ritratti (pare che solo al nord Italia ne abbia fatti più di duecento: Hans Mayer prendeva gli ordini, poi quando raggiungeva la cifra di venti trenta, passava Andy a scattare delle polaroid e dopo qualche settimana ti arrivava il ritratto a casa. Costo? Venti milioni di lire con cui all'epoca acquistavi un bilocale o trilocale in zona semicentrale di Milano. Quando qualcuno vi dice di aver avuto il ritratto di Andy Warhol per amicizia o stima non credetegli. A parte qualche artista con cui lui scambiava il lavoro (oppure personaggi famosissimi come Liz Taylor, Marylin Monroe, Mao, ecc.) tutti gli altri ritratti (compreso Armani) che vedete di Andy Warhol, sono costati venti milioni di lire cadauno. Importo di cui Andy teneva il 50% e il resto suddiviso tra lui, Roman Schlemmer, nipote dell'artista Oskar Schlemmer, che lavorando a Milano nella moda aveva la possibilità di trovare i clienti per Warhol su Milano e Lombardia e Hans Mayer, suo amico e, rappresentante di Andy Warhol e veniva spesso a Milano a riscuotere gli importi per i ritratti.

Il Trionfo della Transavanguardia nella Grande Mela


Ma perché Francesco Clemente era stato invitato a decorare una sala della discoteca più famosa del mondo e perché aveva libero accesso allo Studio 54 e il potere di portare degli ospiti? Non dimentichiamo che siamo negli anni '80 e New York aveva decretato il trionfo della Transavanguardia italiana. E Clemente ne era uno dei protagonisti. Ricordo una sua mostra, in tre gallerie diverse, da Sperone-Westwater, Mary Boone e mi pare Leo Castelli. Inaugurazione stesso giorno e stessa ora. Ricordo le processioni interminabili davanti alle sue gallerie quel giorno. New York aveva incoronato il giovane napoletano arrivato (quasi) come un emigrante qualche anno prima. Esporre contemporaneamente nelle tre più importanti gallerie di Manhattan, non era accaduto a nessuno. Solo Sandro Chia, non ricordo se poco prima o poco dopo Francesco, ebbe lo stesso onore. Insomma, la Transavanguardia, varcando l'oceano, era stata l'ambasciatrice dell'Italia a New York. Credo che mai nessun ambasciatore era riuscito a portare tanta attenzione sull'Italia e sugli italiani. Io e Helena, per la prima volta ci sentivamo apprezzati da tutti: nei negozi, nei ristoranti, senza parlare delle gallerie, dove eravamo accolti come dei profeti. Insomma, noi, intendo Flash Art, era diventato un prodotto molto apprezzato del Made in Italy: dal design alla moda, al cibo, finalmente si parlava italiano. E io non mi sono mai sentito così orgoglioso di essere italiano come in quegli anni, grazie anche a questa banda di giovani artisti, messi insieme da Achille Bonito Oliva. Ricordo che un bellissimo ristorante alla moda 1/5 Restaurant (numero uno della Fifth Avenue), frequentatao anche da Andy Warhol, ci aveva concesso un credito illimitato per i pasti in cambio di pubblicità. E noi ogni sera invitavamo anche quindici venti persone (tra cui Peter Halley, Robert Longo, David Salle, Sherry Levine, Cindy Sherman, Dan Cameron, Thomas Lawson, Paul Taylor, Octavio Zaya, Nicolas Moufarrege), per cui il nostro prestigio a New York era alle stelle. Perché allora essere italiano era bello (strano a dirlo ora in cui le nostre quotazioni sono al minimo). 

Quanto durò questa gloria? Per quanti anni mi sembrò di camminare a mezz'aria per le strade di Manhattan? Per parecchi anni direi, comunque molto di più della Transavanguardia, la quale era esplosa improvvisamente ma anche velocemente entrò in un cono d'ombra da cui stenta a risollevarsi. Però debbo dire che mai nella mia vita trascorsa nell'arte ho visto affermarsi un movimento in modo così veloce e virale. Nemmeno la Pop Art che eppure fu un fulmine a ciel sereno. Ma in quei primi anni '80, tutte le gallerie e i musei del mondo, volevano esporre Chia, Cucchi, Clemente, De Maria e Paladino. 
Con la mostra di Enzo Cucchi al Guggenheim, inizia il flop della Transavanguardia

Questi ragazzi divennero famosissimi e ricchissimi in pochi anni, forse mesi. E nemmeno Picasso ebbe la loro fulminea notorietà. Ma questa attenzione iniziò presto a scemare  gradualmente. L'occasione fu la mostra di Enzo Cucchi al Guggenheim Museum: ricordo che tutti i galleristi, critici e collezionisti, aspettavano questa mostra per decretare chi fosse l'artista più importante del momento: se Enzo Cucchi o Anselm Kiefer. Tutti si aspettavano una grande retrospettiva di Enzo, con le opere più importanti, già esposte nelle gallerie e in altri musei. Insomma, gli americani aspettavano rivedere una "summa" di Enzo Cucchi per decretarne  la sua importanza mondiale. Invece cosa accade? In quella occasione seminale, Enzo Cucchi si mise a fare l'italiano. Invece di presentare una sua mostra antologica presentò 200 disegni collocati lungo le rampe del Guggenheim, dove agli inizi c'era Barbara Gladstone, in quel momento rappresentante di Cucchi negli USA a raccogliere le prenotazioni dei collezionisti che volevano acquistare un disegno. Credo che Barbara ed Enzo incassarono una bella cifra, ma da quel momento iniziò il disinteresse per Enzo Cucchi e la Transavanguardia negli USA. Gli americani non apprezzarono il gesto esibizionistico di Enzo Cucchi che si era preso gioco del sistema dell'arte. Mentre in quel periodo di generale disinteresse per la Transavanguardia ma anche dei Neoespressionisti tedeschi, l'interesse per Julian Schnabel ebbe un leggero appannamento, ma lui, intelligente e ambizioso, si dedicò al cinema, da cui ha avuto risultati direi più che egregi. E l'interesse (e i prezzi) per le sue opere è restato invariato. Ma allora a New York era svanito l'interesse per la pittura figurativa, dopo il collasso della Transavanguardia e del Neospressionismo tedesco? Niente affatto. Da un'area depressa di Manhattan, l'East Village, si stava preparando una sorpresa. Ma di cui parleremo nella prossima puntata.

Contributi
Massimo Minini: sale e pepe nell'arte con l'affaire De Dominicis

Giancarlo,
un po di pepe è entrato nel mondo dell'arte poco fa. L'Affaire De Dominicis. Interessante episodio. Come tutti sanno M.M. è una nota falsaria gia condannata per contraffazione di opere di Vanessa Beecroft. Lo so perché sono stato piu volte chiamato in varie procure per riconoscere o meno opere pretese di Vanessa, completamente ciucche. Ora che una come lei faccia nientepopodimeno che la presidente di una fondazione intitolata al Gino mi pare enorme. Io potrei mettere su una intitolata a Tiziano Vecellio e magari far dipingere qualche quadretto? Sgarbi per me non è colpevole, non è responsabile, soprattutto perché è irresponsabile. Grande e simpatico a volte, iracondo sotto i riflettori, delizioso da vicino, sa riconoscere l'autore di una media crosta del settecento, straordinari. Invece dal 1901 in poi non li capisce, non  gli piacciono. Poco male. Ma non può quindi rilasciare autentiche. Sarebbe come se io rilasciassi autentiche di Alvise Vivarini. Si metterebbero a ridere tutti. Comunque. La storia dell'arte recente e del gallerismo italiano è molto particolare. Ci sono aspetti curiosi. Perché non ne scrivi una? Ti do una traccia se vorrai seguirla. Remo Pastori, il Punto. Pascali, Medea. Luigi de Ambrogi, Masnata Bertesca Genova Adesso anche Pio, finora mondo. Inga Pin che ne ha fatte di orbe, da me i carabinieri varie volte per verifica. E naturalmente altri ma non possiamo farci troppi nemici. Che ne dici? Io penso che sarebbe più divertente che non certe storie serie che conosciamo ma che in fondo annoiano. Il genio italico si manifesta anche cosi, non solo con Totò che vende il Colosseo agli americani.
Massimo Minini

Difendo Remo Pastori, Masnata, De Ambrogi e Pio Monti
Caro Massimo,
perché non la scrivi tu "la vita e malavita di alcuni personaggi dell'arte"? Certe storie le conosci certamente meglio di me. Io ne ho avuti abbastanza di processi per diffamazione (tutti stupidi e molti persi per ignoranza dei giudici e incapacità di un avvocato amico di giovinezza). Debbo ancora terminare di saldare la parcella (esagerata) di uno di questi amici che si era offerto di difendermi gratis per un articolo scritto da Getulio Alviani e che secondo il Tribunale di Bologna, avrebbe diffamato una galleria locale. E poi io non sono moralista come pretendi di essere tu: difendo a spada tratta Luciano Inga-Pin, qualunque cosa abbia fatto. Visto che è morto in solitudine e assoluta povertà, con funerali a carico del comune di Milano. E ricordo le sue bellissime mostre di Marina Abramovic, Gina Pane, Vanessa Beecroft che nessuno voleva realizzare. Cosa chiedere di più a un gallerista. E difendo Remo Pastori, gallerista inimitabile, per classe e occhio, che toglieva ai ricchi (collezionisti) per dare ai poveri (artisti). Morto povero in canna anche lui, ma occhio lungo e raffinato, quando voleva. Lucio Fontana lo adorava e me ne parlava con un entusiasmso straripante. Pescali si occupava di altro rispetto a ciò che interessava me, dunque l'ho solo incrociato per qualche battuta di cattivo gusto. La sua mancanza di stile mi irritava. Di Francesco Masnata ricordo le esemplari (mai più ripetute da nessuna galleria) mostre di Alighiero Boetti o Emilio Prini o Michelangelo Pistoletto e poi la memorabile e inimitabile mostra dell'Arte Povera e Im Spazio, la prima in Italia, che solo un visionario come Masnata avrebbe potuto sponsorizzare. Quale altro gallerista è riuscito a fare altrettanto? Il resto l'ho dimenticato. Di Luigi De Ambrogi invece ricordo una splendida mostra di Pierpaolo Calzolari e la primissima (molto particolare e direi la migliore sua in assoluto) di Enzo Cucchi. Pio Monti, mio fratello e quasi conterraneo, è stato il vero e solo gallerista di Gino De Dominicis. Per oltre una decade Gino è vissuto grazie alla generosità di Pio Monti. Lui è il vero e grande esperto di Gino De Dominicis, non gli altri che lo hanno appena conosciuto o frequentato al ristorante per servilismo e sforzandosi di ridere ascoltando le solite battute di Gino. Pio Monti, quando tu non ti occupavi ancora d'arte, ha portato a Brescia L'Ebrea, di Fabio Mauri, Albers, Vasarely, ecc. E' stato lui che ha venduto a Carlo Catellani la famosa Mozzarella in carrozza. Le autentiche? Chiunque può esprimere un proprio  parere su un'opera d'arte. Poi sarà il mercato e il sistema dell'arte a decidere se accettarne o meno l'autorità. Non vorrei qui tornare a parlare degli archivi legali e legalizzati, e tu lo sai bene, al cui confronto Sgarbi, Pio Monti e M.M. sono delle mammolette. Lì sono girati veramente miliardi (di euro) a causa dalla stupidità delle leggi e delle genti (di tutto il mondo) che concedono il diritto a degli incompetenti di rilasciare autentiche. E ai collezionisti di far finta di crederci.


Una "diffida" dell'Avvocato dell'Archivio Alviani
Pregevole Direttore Giancarlo Politi,
Con due successivi articoli pubblicati sul periodico bisettimanale online FLASH ART iscritto nel Registro della Stampa del Tribunale di Milano al n. 457 del 2008 titolati "Amarcord" e datati 22.06.18 e 04.12.18 Lei ha diffuso notizie non vere e chiaramente diffamatorie del diritto all'immagine, al nome ed alla dignità del Maestro Getulio Alviani, tanto più gravi perché espressi dopo la sua morte.
In vita il Maestro mai Lei si è permesso di mettere insieme notizie verosimili infarcite di falsità e di offese gratuite o di richiedergli opere d'arte.
Venendo a mancare il Maestro - con una consuetudine che occupa uguale da secoli gli eredi del notabile del paese come quelli del grande artista- qualcuno, magari tra quelli che lui ha più sostenuto economicamente e professionalmente, ha dimenticano ciò che doveva e si è riscoperto creditore.
Il Maestro da "grande anticipatore" (è una Sua citazione) aveva previsto tutto ed ha sempre scritto di ciò che dava (ed è davvero tanto), del poco che riceveva e delle persone a lui più vicine, delle quali dava sempre giudizi schietti ed inappellabili.
Chi riesce a guardare la Luna e non il dito sfogliando pagine di fogli di calendario, volantini pubblicitari e lettere vergati sul retro dal Maestro sa che tale riciclo non era dettato da "incallita avarizia" (è sempre Lei), ma dalla lucida volontà di dare ad ogni appunto una traccia temporale, anche per fornire a chi gli sarebbe succeduto gli strumenti per affermare la sua volontà post mortem.
L'Archivio, anche grazie a tale documentazione autografa, sta provvedendo e provvederà nel futuro a tutelare l'onore e la reputazione del Maestro nei confronti di chiunque ne diffami, ingiuri o offenda la memoria. L'episodio che Lei descrive nel Suo ultimo articolo quando, da Direttore di Questa Rivista, "per gioco" ha modificato nel senso diametralmente opposto e poi pubblicato un articolo scritto dal Maestro e la circostanza che ancora oggi Lei non si capaciti del perché il Maestro non avesse soprasseduto "allo scherzo", dice tanto sulle differenze -che anche i Suoi lettori potranno cogliere- tra Lei ed il Maestro Getulio Alviani, che, per inciso, è stato Direttore Artistico dell'AVE, non della BTICINO.
Con la presente si formula espressa diffida a non proseguire con l'attività lesiva e diffamatoria che, con articoli a Sua firma sulla rivista online FLASH ART, sta perpetrando all'evidente scopo di ledere l'immagine, il nome e la dignità del Maestro Getulio Alviani. Si chiede, inoltre, ai sensi dell'art. 8 Legge n. 47 del 1948 di pubblicare le presenti dichiarazioni in testa di pagina della rivista online FLASH ART nella loro interezza.
Si diffida, infine, dall'utilizzo di foto del Maestro Getulio Alviani e delle sue opere in violazione delle regole sul copyright.
Distinti Saluti
Avv. Paolo Riscica per Archivio Getulio Alviani, via Fauchè 1 - Milano 

Su Alviani nessuno può insegnarmi nulla
Caro Avvocato, 
non so se lei abbia conosciuto Getulio Alviani, ma non mi sembra. Gli è stato raccontato da persone a lui vicine e che lui detestava. Invece pochi (forse nessuno) lo ha conosciuto bene quanto me. L'ho frequentato dal 1964, ininterrottamente. Abbiamo percorso tutta l'Europa in macchina per visitare i suoi artisti, siamo andati tre volte a New York (io l'ho condotto a New Haven, da Albers che avevo conosciuto prima di lui), è stato con me e mio ospite, a Trevi in Umbria,  almeno un centinaio di volte. E' vissuto qui a casa mia, in Viale Stelvio, dopo la morte di Anna Palange, forse per un paio di anni. E quando non dormiva da me, con Anna o da solo, un giorno si e uno no, veniva a pranzo o a cena. Dunque su Getulio non mi deve insegnare nulla. Né lei né altri. Non è stato un amico, ma un fratello, un padre e talvolta un figlio, anche se ho evidenziato alcune sue caratteristiche (e lui faceva lo stesso su di me) che lo rendevano speciale. E non mi ha mai sostenuto economicamente né professionalmente. Sul piano economico è sempre stato (piacevolmente) a mio carico, su quello professionale Getulio era un totale sprovveduto su tutto ciò di cui mi occupavo (eccetto sull'arte cinetica, come ho scritto, su cui era incomparabile). Circa le mie due opere prestategli (un Morellet con etichetta Arte Invernizzi, e Camargo) per una mostra, ci metto una croce sopra. Ma altri non faranno come me. E sullo scherzo del mio testo alterato sulla Transavanguardia, poi alla fine, dopo una sua sfuriata, ci abbiamo riso insieme. A Getulio piaceva molto essere protagonista: quando era da me, se c'erano altre persone che lo oscuravano, lui si sentiva frustrato e si ritirava in silenzio in un angolo. Io sto difendendo la memoria dell'artista Alviani come forse nessuno, mentre da altre parti, per incompetenza, ignoranza e desiderio di protagonismo, lo si sta affossando. Ma io difenderò l'artista Alviani (e l'amico Getulio, con tutte le sue intemperanze che lo rendevano unico) sino a che potrò. E tutto ciò che ho scritto è pura verità, scaturita dal mio rapporto speciale con Getulio. L'unica cosa imprecisa che ho scritto (e che lei mi fa notare) è che lui era consulente della Bticino e invece lei mi dice di AVE. Le sembra un errore questo o un pretesto? In quanto all'uso delle foto di Alviani, il diritto di riproduzione appartiene ai fotografi e nel mio caso all'Archivio Germana Marucelli e Pio Monti. Per il diritto di copyright mi dovrebbe dimostrare che questo diritto appartiene all'Archivio Getulio Alviani e non invece agli eredi legittimi. Cioè alla famiglia. Ma su questo avremo il tempo e le opportunità di discutere. Un'ultima cosa: il mio Amarcord è una sorta di blog personale e non riguarda Flash Art. Tutto ciò che scrivo ricade sotto la mia responsabilità e non quella di Flash Art.

Salvatore Siena
Grazie Giancarlo, che bello leggere del caro Getulio.
Purtroppo l'avevo perso perché era rimasto avviluppato in una rete di ammaliatori con i quali non avevo nessuna sintonia. E' così no? La notizia della sua morte mi è arrivata poi dai giornali e dalla sorella Rita. Ora le tue parole che ho stampato e che terrò in ricordo mi hanno fatto ricordare Getulio cui voglio bene.
Qui in Ospedale Niguarda rimane l'Aula Anna Palange e se dovessi riscrivere un'altra biografia di Getulio magari puoi ricordarlo. Ciao, Salvatore Siena, Direttore Reparto Oncologia, Ospedale Niguarda, Milano.

Il tentativo di affossare un grande artista
Caro Salvatore,
gli ammaliatori avevano convinto Getulio che al Niguarda lo si stava uccidendo. Me lo disse lui stesso, parlandomi di un medico che lo aveva preso in cura, come di un Gesù Cristo che compiva miracoli. Invece voi stavate solo cercando di salvarlo. Cosa che non hanno fatto altri, isolandolo da tutti: isolamento che Getulio soffrì più della sua malattia. E alle mie insistenti richieste di vederlo, mi si rispondeva che Getulio stava bene e che aveva solo bisogno di riposo. Mi fu permesso di vederlo solo in coma, due giorni prima della sua morte. E ora, persone presuntuose e incompetenti, ne stanno affossando l'opera. La sola vestigia resterà forse la bella Aula Anna Palange nel tuo reparto al Niguarda. Ma a volte questa è la vita. L'Italia è il paese che premia sempre i criminali e gli incapaci. Lo diceva sempre anche Getulio.


Fausta Squatriti: un altro Amarcord su Getulio Alviani
Caro Giancarlo, 
a parlare di Getulio, non si smette mai. Ho letto quanto tu ne hai scritto, con la tua capacità di analisi, di ironia, e di affetto. Tutti ci siamo lasciati affascinare da lui, bugiardo, avaro e poi generoso, a suo modo, pazzo. Ho sempre frequentato gli artisti che erano per età ed esperienza, più grandi di me, da loro ho imparato tanto, a partire da Fontana, al quale va sempre il mio pensiero, e ho capito  che spesso quelli che  hanno professato un'arte esatta, che vuole e può dare un'idea di una mente organizzata per risultati che esaltino il lato razionale, ma anche poetico, sono, nella loro vita privata, i più complessi, i più - surreali - , i più imprevedibili. Penso a Max Bill, che quando è morta sua  moglie, cadendo da un basso gradino in un albergo di Bologna, al telefono mi ha detto: la mia vita è finita. Ha portato il corpo della moglie in Svizzera, in modo clandestino, così mi diceva Getulio, ma non ne sono sicura. So che nel giardino della bellissima villa di Zumikon, in un muro, Bill ha  tumulato le ceneri della moglie, che si vestiva alla giapponese, ma non lo era. Dopo averla onorata con il suo dolore, è partito con la sua amante storica per un viaggio, credo che lei si chiamasse Angela Thomas. E che dire di Lohse che quando andavo a Zurigo, spesso con Getulio, mi obbligava, quasi, a bere vino rosso alle undici di mattina, per poterlo bere lui, cui la severissima Frau Lohse non lo avrebbe permesso, senza credere fossi io a volerlo? E Almir Mavignier, brasiliano naturalizzato tedesco, che nel rigore di una vita famigliare alla tedesca aveva inquadrato la sua mente, e il suo lavoro, per ottenere quei risultati che necessitavano di un rigore che nel profondo non gli apparteneva? Con Almir, simpaticissimo,  ho realizzato due serigrafie bellissime, con grande fatica, per il porfolio che avevo creato,  EXACTA, nel quale sono riuniti 27 artisti tra i più importanti della ricerca esatta internazionale, ma avevo  rinunciato a fare altre grafiche, perché mi faceva sempre tante difficoltà, che alla fine, rimanendo amici, gli ho detto che non avrei fatto prove e nuove prove, all'infinito. 
Artisti come Man Ray, Max Ernst, Dorotea Thanning, o come Tinguely e Niki de Saint Phalle, che nel lavoro erano irrazionali, nella vita erano saggi, (con riserva) affidabili, e sono stati amici straordinari con i quali tutto avveniva nell'ambito di una certa razionalità.
Inevitabile, per scrivere di Getulio, toccare i lembi delle sue passioni, ma torno a lui, alle storie che mi aveva raccontato, molto diverse da quelle che leggo nel tuo scritto, chissà cosa è la verità?
Getulio, con molta reticenza, a proposito della sua infanzia, e dicendomene il volto gli si oscurava, velato da un profondo dolore, mi raccontava di essere stato dato agli zii ricchi e senza figli, per essere allevato da loro, e che da bambino soffriva di non stare con i due fratelli e la madre. Diceva, a mezza voce, che la madre, poverissima, in qualche modo, per riconoscenza verso gli zii, rendeva loro dei servigi domestici. Quanto al padre, che era dei dintorni di Napoli, non diceva molto, non lo vedeva mai e, forse, si occupava di traduzioni. Il ricordo del padre, era quello di un calcio dato al teatrino con cui Getulio giocava solo, perché aveva preso un brutto voto a scuola. Gli zii, adoravano il bambino, che chiamavano Ninin, lo portavano al mare, a Lignano Sabbiadoro, ma per paura che annegasse, gli permettevano soltanto di bagnare i piedi nell'acqua. Infatti ero stata io a insegnargli a nuotare, quel poco, ma in acqua fonda non si azzardava, mi aveva in seguito raccontato che stava per annegare, e che il figlio di Paolo Seno lo aveva salvato.
La vita nella villa degli zii, affacciata sud di una strada di terra battuta che in estate una autobotte passava a bagnare, seguiva dei rituali cui il bambino era stato educato. Al ritorno dello zio, Ninin doveva porgergli le pantofole, prendere le scarpe e pulirle, riporle nella apposita rastrelliera, e se aveva piovuto, asciugare anche la bicicletta, lucidandone le parti cromate. Ma quanto più mi stupiva dei suoi racconti era l'abitudine di ricoprire, in inverno, il pavimento della villa con un secondo pavimento di legno, che avrebbe preservato dal freddo le stanze. Questo pavimento in primavera lo si toglieva, un traffico non indifferente, ma io gli credevo, perché inventarsi una storia così, mi pareva difficilissimo. Nel giardino c'erano dei girasole, o altri fiori, che lui diceva di dovere innaffiare dall'alto, dal balcone, con un pesante annaffiatoio, che distribuiva l'acqua a pioggia. E poi, le sere si passavano con lo zio a contare i soldi dell'incasso giornaliero, separando i vari tagli accuratamente, facendone dei mucchietti, e poi contandoli.  Getulio, che adorava lo zio, credendolo infallibile, da bambino veniva mandato a giocare per lui la schedina del totocalcio. Diceva Getulio di essere stato convinto che lo zio, infallibile, avrebbe vinto, ma trovando il vincere del denaro, immorale, cambiava tutti i risultati, e infatti lo zio non aveva mai vinto. Credergli? Se si era inventato tutto, aveva in se stesso anche la vena del narratore. Nei primissimi anni '60, con Sergio Tosi cominciavamo alla creazione  di  edizioni numerate, cartelle di grafiche e multipli, i primi ad essere creati in Italia, e non solo. Gli artisti con cui abbiamo fatto le edizioni erano Fontana, Twombly, Pol Bury, Soto, tanto per fare alcuni nomi, e anche Getulio, che avevo conosciuto al Naviglio, dove un suo bellissimo pavimento dava luce e spazio alla piccola galleria di via Manzoni. 
Lo avevo invitato a venirmi a trovare, e diventammo amici. Lui veniva da Udine con la Porsche bianca, in poche ore, diceva di guidare con il finestrino aperto, e di fare segno con la mano che lo si lasciasse passare. Veniva a trovarci, in viale Montello 8, parlavamo d'arte, di edizioni, abbiamo realizzato una sua piramide, ma solo in pochi esemplari, era molto complicato farne una serie, e quella edizione non la avevamo mai completata, purtroppo. Spesso era accompagnato da Marina Apollonio, che Umbro credeva si sarebbe sposata con il Get, ma così non è stato, provocando una momentanea incomprensione tra lui e Umbro. Altre volte veniva accompagnato da suo fratello, con il quale poi aveva litigato, non vedendolo per anni. 
Dopo la sosta da noi, Getulio andava da Cardazzo nel tentativo di farsi pagare. Quando ci riusciva, ripassava da noi con l'assegno, piccole cifre, e noi gli davamo i contanti, che, diceva, gli sarebbero serviti per la benzina. Nel '68, credo, aveva un motoscafo ormeggiato nel canale della Giudecca, durante la Biennale, e ci aveva invitati per fare un giro in laguna. In effetti, non è mai stato possibile stabilire di cosa vivesse, se fosse ricco o povero, ma di certo non ha mai avuto un lavoro parallelo a quello di artista.
Quando, negli anni '70, ci siamo innamorati, lui era in disgrazia, come artista, le sue opere costavano pochissimo, ma era stato capace di infondermi una grande energia, aiutandomi ad uscire da situazioni personali che mi avevano annientata. La nostra vicenda è stata complessa, e non è qui il caso di raccontarla. Ma sia pure a intervalli anche lunghi, siamo sempre stati in contatto, e una certa complicità non è mai mancata. Però, mi ha fatto degli scherzi atroci, di cattiveria profonda, di vendetta, che non dovrei riuscire a perdonare, eppure lo faccio, perché metto sul piatto della bilancia, tutto il resto, i viaggi, il lavoro fatto insieme, le risate, la sua cortesia con i miei genitori, fino ad un certo momento quando, andando in Venezuela, e innamoratosi di Gloria Carnevali, mi ha lasciata sola a terminare EXACTA, cosa che ho fatto. Di Gloria gli avevo detto: attento, che non tutti i carnevali finiscono in gloria, e così era stata. Lui apprezzava il mio humor, ma lo irritava anche, perché lo mettevo sempre con le spalle al muro. Ero stata io a suggerire a Soto di affidare a Getulio la direzione del Museo di Ciudad Bolivar, e l'idea si era rivelata pessima, perché ha portato a litigi e scene delle  quali non ho capito la verità, ma conoscendo Soto come un uomo generoso e onesto, propendo per credere che fosse lui ad avere ragione. Di quanto mi raccontava Getulio, emergeva una sua follia, che invano avevo cercato di sistemare. Credo che, come tutti i bugiardi, alla fine, non si sia ritrovato tra le sue stesse, multiple verità, entrando veramente in una spirale di follia.
Mi aveva regalato un grande suo lavoro, bellissimo, che non gli ho mai prestato per le mostre che mi diceva di dovere fare, sapevo che non lo avrei più rivisto. Per la mostra di Bergamo, ho domandato a Giacinto di venire a prenderlo lui, e di riportarmelo lui, e così è stato. Mi ha sottratto altre opere, chieste per fantomatiche mostre, a volte mi sfinivo nel dovergliele chiedere indietro, e poi sono rimaste a lui. Gli avevo lasciato le chiavi di casa, ma ho poi dovuto chiedergliele, per ragioni che non posso e non voglio raccontare. Il suo amore per Anna Palange  è stata l'occasione per comportarsi bene, nell'ultimo anno della terribile malattia di Anna. C'ero anche io, tra i tanti che passavano la giornata alla clinica dove Anna, giovane, viveva una agonia lunga, un incubo che spesso rivivo. Lui, allora, aveva  bisogno anche di me. E' toccato a me dirgli di smetterla di ingozzarla con il semolino, perché Anna stava morendo. Sono stata io a guidare  la mano di Anna, per farle firmare l'atto di matrimonio del quale hai scritto già. Però, il matrimonio è stato civile, c'erano due consiglieri del Comune di Milano, con la fascia tricolore, non c'era il cappellano. 
Un abbraccio, 
Fausta


Alessandro Crisci: Amarcord tristissimo su Alviani
Buonasera, sono Alessandro Crisci e nel 2008, grazie alla famiglia Seno, e in particolare modo all'amicizia di Gabriele ho avuto il privilegio di conoscere Get, e lo ho frequentato  sia per motivi di lavoro che di svago. Il mio lavoro si svolge nell'edilizia da 29 anni, e con uno dei miei mezzi furgonati, consegnavo per conto di Get le sue opere chiuse in casse di legno. In seguito a questo è poi nata una grande amicizia con Get,.... mi aveva preso a cuore! Nel 2014, per uno mio errore nei confronti della società, finisco in carcere, dal 2014 fino al gennaio 2018, sono stato recluso a Opera. In questi quattro anni e dieci mesi di reclusione, ho ricevuto da Get una meravigliosa corrispondenza di 45 lettere. Get, mi stupiva in continuazione con le sue lettere, perché, su ogni lettera ricevuta sulla busta a fianco al francobollo mi metteva sempre una foto di una  bellissima donna, poi la cosa veramente affascinante era che la buste delle lettere che ricevevo da lui, erano le mie che gli spedivo, in quanto Get  le girava al contrario, con cura le incollava e me le rispediva . Quando le  aprivo  mi accorgevo che  all'interno della busta, il mittente e il destinatario erano state  scritte  da me o da qualcun altro che gli aveva scritto. Get mi teneva al corrente di ciò che gli  succedeva nella sua vita quotidiana, ed io lo tenevo informato di ciò che mi succedeva in carcere, anche perché era la prima volta che varcavo la porta del riformatorio Get mi scrisse che la sofferenza può anche portare a gesti estremi e che per evitare questo, dovevo impegnare il tempo che avevo a disposizione studiando. Mi  fece arrivare tramite colloquio molti  libri - ne accenno solo alcuni - Lucio Fontana, Capogrossi, Victor Vasarely, Josef Albers, Max Bill, Arte Cinetica, Hans Hartung, Julio Le Parc e 15 inserti di Flash Art, di cui uno in particolare il N. 315 del 2014 , in cui c'era un'intervista fatta a Getulio sulla vita di Julio Le Parc. Dentro uno di questi libri mi lasciò un biglietto scritto con queste parole :  
  "Attraverso l'arte, che è simbolica di tutto, si può capire tutto oltre a questo il grande pregio dell'arte (anche quella cattiva ) e capire, capire, capire, non smetterò mai di dirtelo e cerca di farlo anche tu;  da una parte ti sentirai LIBERO; dall'altra entrerai nella profondità delle cose." 
E cosi feci. Ora voglio parlare delle  ultime 10 lettere che ho ricevuto da Get, precisamente dal 01/01/2017 al  01/11/2017, faccio un piccolo riassunto. In questo lungo  periodo Get mi scriveva  che era malatissimo e che da gennaio 2017 viveva tra ospedali ed era iniziato il calvario della sofferenza. Il Niguarda gli aveva provocato una infezione per la quale per tre settimane ha avuto 24 ore su 24 flebo di antibiotici.
Poi lo portarono in una clinica, La Columbus, dove aveva incontrato un dottore, che ha fatto l'impossibile per salvarlo. Mi fermo qua, perché, Get in quei mesi stava veramente male in quanto era  giorno e notte sotto terapia, e io, me ne accorgevo anche dalla calligrafia delle lettere che mi arrivavano (quelle da agosto 2017 in poi) la linea precisa della sua grafia era diventata molto tremolante e il  contenuto delle lettere, molte, era senza senso. Però mi voglio soffermare su alcuni punti, nelle ultime 10 lettere che ho ricevuto da Get nel finale delle lettera mi scriveva sempre queste parole: "quando esci dal carcere !!!!", era come se cercasse protezione / aiuto da me. In una lettera di settembre 2017 mi scrisse che non riceveva più lettere da nessuno, lui aveva scritto a me da Firenze, da Roma, dalla Svizzera, da Milano, ma non gli era arrivato nulla di risposta da me, nonostante io puntualmente rispondevo ad ogni sua lettera; sembrava come se qualcuno stesse bloccando la nostra corrispondenza o qualcos'altro, perchè sapeva che Get stava morendo, per allontanare tutte le persone che conoscevano Get. Anche i cellulari da cui Get non si separava mai, risultano improvvisamente spenti dal 16 settembre 2017, insomma lo avevano emarginato e messo in una campana di vetro/sequestrato, mi chiedo come mai questo accanimento da parte della sua ex compagna di non far più salutare a nessuno il povero Get?. 

Esco dal carcere 11/01/ 2018, e dopo tre settimane decido di andare a trovare Get all'ospedale, chiamo la sua ex compagna e Le chiedo  gentilmente se potevo andare a  trovare  Get all'ospedale, mi dice che posso andare, ma non dovevo dire a nessuno l'ospedale dove era ricoverato Get, specialmente alla famiglia Seno,  io non capivo il motivo in quel momento ma accettai. 
Il giorno 17/02/2018 vado all'ospedale a trovare Get, nella stanza c'era il fratello della sua ex fidanzata, mi presento e mi giro verso il lettino di Get, rimasi traumatizzato nel vedere Get in quelle condizioni, purtroppo era in fase terminale, non era più cosciente e non so neanche se mi ha riconosciuto.
Ho scattato una foto a Get l'ho salutato con un bacio e me ne sono andato piangendo.
Io sapevo che la ex compagna di Get ultimamente non andava d'accordo con Gabriele Seno, cosi decisi di andare dalla mamma di Gabriele e mostrare la foto delle condizioni di vita di Get, come vide la foto si mise a piangere dicendomi perché non ci ha avvisato e non ci ha chiamato per farcelo salutare...??
Chiamai la ex compagna di Get e gli dissi che avevo detto alla  mamma di Gabriele dove era ricoverato Get, ora non scrivo tutte le offese e le  parolacce e gli insulti che ho ricevuto da quella donna, mi ha spaventato davvero. Non contenta, visto che non rispondevo alle sue chiamate, mi ha lasciato un messaggio in segreteria telefonica bruttissimo, insultando pesantemente con minacce me e la famiglia Seno. io lo ho archiviato e tutt'ora oggi lo conservo. 
Finisco questa lettera con un mio pensiero: oggi capisco perché questa donna aveva premeditato ed emarginato Get da tutti nel periodo finale della sua vita: non voleva interferenze nel testamento scritto nel 2011

Luciano Marucci
Caro Giancarlo,
il dettagliato ritratto di Getulio – del quale avevamo parlato anche a Basilea – nell'ultimo "Amarcord" è realistico e permette di capire meglio la sua controversa personalità. Con me, nei tanti anni che l'ho frequentato, si è comportato sempre da vero amico. E risento ancora la sua voce quando descriveva il male che lo aveva colpito, le sofferenze, le rinunce e le speranze, finché ha avuto la forza di rispondere  al cellulare. Allora preferisco ricordarlo come un uomo generoso, molto appassionato e competente di Arte Cinetica e Programmata, estremamente rigoroso in quella di indubbia qualità da lui prodotta e in tutte le altre attività, come pure tu hai sottolineato. Era così presente, anche attraverso la sua vis polemica contro il sistema, per cui stento a credere che sia scomparso per sempre. Il tuo racconto lo fa rivivere un po' fra noi, energico, razionale e anarchico, proprio come lo abbiamo conosciuto e spesso condiviso.
Un caro saluto.
Luciano Marucci

Premio Marzotto
Caro Giancarlo, 
probabilmente hai ragione tu: come l'Araba Fenice del mito l'arte risorge sempre, o, meglio come dicevano i filosofi greci: "Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma", e l'arte oggi può essere nel premio Marzotto alle Startup. Ricordo di Benedetto Croce citato in un articolo dove si diceva che sostenesse che in tutte le discipline c'è arte e creatività pena lo sviluppo delle attività stesse. Del Premio Marzotto che ebbi modo di conoscere grazie all'amico mentore Berto Morucchio, segretario del Premio Marzotto per 3 edizioni, so che era biennale e con a capo Pierre Restany  e grazie a lui si ebbe a Valdagno il fior fiore dell'arte Europea dal 1958 al 1968, mentre prima 1951-1958 era Nazionale. Ebbi modo di lavorare al Premio dei 150 anni dell'azienda, sotto la guida del Conte Paolo Marzotto con Virginia Baradel e Flavio Albanese nell'anno 1986 e così appresi de visu la pittura europea con opere di grande qualità. So, poi, che diversi miei conoscenti chiesero al Conte Paolo di riprenderlo e mi fa piacere che si sia trasormato in altro. Anche se mi resta la nostalgia per quelle forma di premio che per l'Italia ha significato molto. Abbraccio. Boris

Non è più tempo di nostalgie
Caro Boris,
non è più tempo di nostalgie. Bisogna prendere atto che il mondo che abbiamo conosciuto si è trasformato insieme all'arte e alla nostra giovinezza. Quant'è bella giovinezza che si fugge tuttavia, diceva Lorenzo de' Medici (chissà poi se l'ha scritta proprio lui e non qualche ghostwriter alla sua corte, questa bellissima poesia) e, obtorto collo, dobbiamo dirlo anche noi. Credo fermamente, ad osservare il triste panorama nazionale e non solo, che la creatività in arte si sia fermata ad Eboli. Ora vedo solo un deserto immenso, popolato da gnomi. L'ultimo artista di rilievo che ho conosciuto è Francesco Vezzoli. Poi più nulla. Colpa della mia miopia o dell'appiattimento generale?

Assolto da tutti i miei peccati
Caro Politi,
questa bellissima frase "L'Italia è un paese non sufficientemente disperato per ritrovarsi nella poesia" ti assolve da tutti i tuoi "peccati" culturali.


 Flash Art Italia
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20159, Milano 
+39 02 688 7341

martedì 4 dicembre 2018

Amarcord 23 - Incontri, Ricordi, Euforie, Melanconie

Amarcord 23

Incontri, Ricordi, Euforie, Melanconie

di Giancarlo Politi
per intervenire, controbattere o esprimere una propria opinione scrivere a

A proposito di Amarcord

Cari amici,
purtroppo non riesco a garantirvi un Amarcord settimanale e di martedì. 

Chiedo un po’ di libertà di movimento. Ma ancora per qualche mese (poi i ricordi e gli incontri un giorno avranno una fine) vi garantisco che li riceverete. In futuro forse saranno sostituiti da altro. Spero altrettanto apprezzato.

Un caro saluto.
Giancarlo Politi
Dal MAXXI di Roma nuovi segnali di speranza
Eccomi di nuovo a voi, dopo un viaggio a Roma e una breve ma infida influenza. Al Maxxi ho assistito all’assegnazione dei Premio Gaetano Marzotto. Negli anni ’50 il Premio Marzotto era forse la rassegna d’arte più importante in Italia. Partecipare al famoso Premio di pittura Marzotto era già un grande traguardo, vincerlo poi era un riconoscimento quasi da Premio Nobel. Ebbene, la Fondazione Marzotto, in sintonia con i tempi, da molti anni, non assegna premi all'arte ma alle aziende (Startup) più innovative. Cari amici, questa manifestazione ha riacceso le mie speranze sul futuro del nostro paese. Cinquanta startup, scelte da una commissione super qualificata, si sono contese i 20 premi complessivi (300 mila euro per il primo e 5 milioni di euro in percorsi dei molti partner). Sono loro che ci stanno traghettando nel futuro. Sono questi i nuovi artisti? Un novello Leonardo forse non lo incontreremo nei musei d’arte ma in una startup super specializzata, sconosciute ai più ma notissime agli addetti ai lavori. E dislocate in tutto il paese, da Nord a Sud. Con questa premiazione, condotta magistralmente da Cristiano Seganfreddo, ho assistito alla più bella performance della mia vita (seconda solo a quella di Marina Abramovic alcuni anni fa al MoMa): giovani di grande talento, determinatissimi, hanno presentato in modo sintetico e chiarissimo, in un minuto, la loro attività innovativa (la maggior parte orientata verso le innovazioni in campo medico e verso la prevenzione in generale). Malgrado la situazione politica e i politici che ci governano, c’è una classe di giovani e giovanissimi imprenditori, grandi lavoratori e pionieri nel loro campo, di altissimo livello. Lo stato ci ignora ma sottotraccia c’è chi lavora per il futuro del paese e per la nostra salute. Tanto di cappello a una generazione apparentemente perduta e che invece sta salvando il paese e noi.
Una modella indossa le opere di Getulio Alviani in presenza
dell'artista, presso la sua mostra ad Artestudio, Macerata, 1970.
Courtesy Pio Monti.
Getulio Alviani, vita di un artista da giovane
Ho l’impressione di aver conosciuto Getulio Alviani da sempre. E meglio di tanti altri. Quando lavoravo alla Fiera Letteraria nei tardi anni ‘50, a Roma, comunicavo per lettera con Getulio che mi parlava del suo lavoro e di quello dei suoi maestri e colleghi (Albers, Vasarely, Soto, Mavignier, ma soprattutto Max Bill, suo amico e mentore). Poi per la prima volta forse l’ho incontrato a Roma nel ‘62 alla mostra “Arte Programmata” organizzata da Umberto Eco nella sede della Olivetti. O forse ancora prima, nel ’61 a Zagabria, in occasione della storica mostra “Nova Tendencija” – considerata l’atto di nascita della Op art e dell’Arte cinetica – curata da Matko Meštrović direttore della Galleria Nazionale.

Da quell'incontro ci siamo visti spesso, anche se io abitavo a Roma: a Venezia con Umbro Apollonio, altro suo grande amico e sostenitore, e a Udine, dove andavo a trovarlo, o qui a Milano assieme a Paolo Scheggi e Lucio Fontana alla galleria del Naviglio, oppure a cena a casa di Scheggi. O agli incontri dalla stilista “optical” Germana Marucelli, zia di Paolo Scheggi, per cui Getulio aveva disegnato bellissimi vestiti optical, E con lui e Scheggi, Germana, una sartina proveniente da Firenze e che diventò la signora della moda milanese e non solo, aveva realizzato delle bellissime sfilate, con vestiti passati alla storia disegnati dai due artisti. In quegli anni Germana Marucelli apriva il suo salotto privato, il giovedì sera, agli intellettuali e artisti milanesi e si discuteva di arte e scienza, di letteratura e talvolta, ma più raramente, di politica. Lucio Fontana era un frequentatore abituale della Marucelli e ci illuminava con i suoi interventi su Arte e Industria. Perché io, quando di giovedì mi trovavo a Milano, partecipavo sempre. Atmosfera rilassata, da salotto milanese perbene, anche se la Marucelli non aveva perduto la sua verve toscana, discutendo di arte, scienza, letteratura, moda con un po’ di garbato gossip. 

A quell’epoca Getulio viaggiava con una bellissima Porsche bianca, per cui noi tutti lo consideravamo ricco o comunque benestante. In realtà la Porsche gli era stata regalata da un suo zio ricco con cui Getulio viveva, avendo abbandonato, con grande sorpresa della madre e del padre, la sua famiglia, che però abitava di fronte. Anche la famiglia di Getulio era benestante, come mi ha raccontato la sorella Rita, perché titolare della più famosa tabaccheria di Udine, in pieno centro. Che oltre ai sali e tabacchi, era un emporio di pipe, molto in voga all’epoca. Ma Getulio preferiva le comodità e il lusso della casa di suo zio che non aveva figli e in un certo qual modo lo aveva adottato. Mentre in casa dei suoi genitori, le attenzioni erano ovviamente distribuite su tre figli.
Alviani e l'interruttore elettrico
In quegli anni Getulio, così mi raccontava, collaborava come designer con l’azienda bticino di Brescia – specializzata in interruttori elettrici – e dunque era uno dei pochi artisti allora ad avere qualche entrata. Una volta in un albergo Getulio mi disse: vedi quell’interruttore? L’ho disegnato io per la bticino. Non ho mai capito se fosse vero o no. Getulio era molto portato a distorcere la realtà (ma questo l’ho scoperto molto più tardi), anche delle sue frequentazioni. Get, come noi lo chiamavamo, era uno specialista a trasformare la realtà in fantasia. Ma era la sua natura, di cui non si rendeva conto. Lui era il maestro della disinformacja, allora molto in voga a Lubiana e Zagabria e nei paesi comunisti, dove contava numerosi colleghi diventati poi suoi amici. Dunque, per me Getulio era ricco. Anche perché in quegli anni le opere non si vendevano e il mercato era demonizzato. Era l’epoca dell’arte moltiplicata che doveva essere fruita da tutti. I gruppi T e N di Padova erano i più agguerriti sul piano ideologico e si scagliavano inferociti contro la mercificazione dell’arte, per cui (forse giustamente) preferivano collaborare con le aziende, oppure insegnare, anzi ché avere rapporti con le gallerie d’arte, che comunque erano rare e squattrinate. Lo stesso Argan a Roma, con tutto il suo seguito universitario, novello Savanarola, inveiva contro la mercificazione dell’arte, come se il Rinascimento fosse stato una espressione dei contadini e non dell’opulenza dei medici e della Chiesa che si contendevano gli artisti come fanno le gallerie oggi. Ma Getulio (che non era ideologicamente schierato, pur avendo attitudini anarcoidi) era il solo italiano ad avere rapporti internazionali con i colleghi di tutto il mondo e per cui si è impegnato sino allo spasimo per seguirli, esporli, farli conoscere, farli collezionare, trascurando spesso se stesso. Comunque, per me in quei primissimi anni Sessanta chi viaggiava in Porsche era ricco. Con Getulio abbiamo compiuto numerosi viaggi, con la sua porsche o con la mia Dyane Citroen. Una volta mi trascinò sino ad Amburgo per incontrare Mavignier, che Getulio ha considerato come un maestro assoluto dell’arte cinetica. Mentre non mi sembra che Alvir Mavignier, sia diventato un reale protagonsta del movimento. O forse non ne conosco a sufficienza la storia e i risvolti. Un’altra volta andammo a Delft, in Olanda ad incontrare Jan Schoonhoven, già allora famoso artista concreto, che aveva partecipato anche al gruppo Zero. Opere sempre e tutte bianche con dei piccoli quadratini a rilievo: a me faceva pensare un po’ a Castellani. Jan Schoonhoven, pur essendo un artista famoso, in patra e fuori (sue opere erano in tutti i musei olandesi), per sopravvivere (o per snobismo?) faceva il postino a Delft e ricordo che noi attendemmo il suo ritorno dal giro di consegne all’ufficio postale. Poi andammo nel suo studio, tutto bianco e immacolato, ordinatissimo, con centinaia di opere su legno, impilate una sull’altra. Non so come Getulio facesse a intendersi con Schoonhoven che non parlava una parola di francese, ma solo olandese, tedesco e discretamente l’inglese. Però vidi che gesticolando sembravano intendersi. Io parlavo con lui in inglese e mi raccontò la sua vita, semplice ma decorosa e serena, di postino e di artista. Mi disse che quell’impiego di postino gli lasciava abbastanza tempo libero per il suo lavoro di artista e per qualche viaggio in Germania. Era un uomo semplice e spartano, un po’ come Getulio. Prima di lasciarci, Jan Schoonhoven, visto che gli avevo promesso un articolo o intervista in Flash Art, mi volle regalare una sua opera, che di cui poi Getulio si appropriò, dicendo che gli serviva per una mostra. In realtà andò ad arricchire la sua già cospicua collezione di arte programmata e io il mio Schonooven non l’ho più rivisto. Ora è in mano dei suoi eredi. Come è avvenuto anche per un’opera di Morellet e Camargo che l’amico Get mi chiese in prestito per una mostra e che non ha fatto in tempo a restituirmi. Queste opere le rivedrò solo in qualche asta o galleria, prossimamente, poste in vendita dall'erede. Amen.
Un abito di Germana Marucelli della collezione "Optical"
con motivi di Getulio Alviani, 1965.
L'amore di Getulio per l'ex jugoslavia
Ma le sue mete preferite erano Lubiana e soprattutto Zagabria, dove operava il suo amico e collega Ivan Picelj, altro grande spartano che si accontentava del nulla. Picelj era una persona gentile e delicata, che pur vivendo di stenti, manteneva una dignità da sovrano di altri tempi. Poi, morta sua moglie, gli fu tolto l’appartamento e andò a vivere con la figlia, che lo aveva sistemato in una stanzetta monacale (ma di più non poteva, sotto Tito le vere abitazioni erano riservate alla nomenclatura, per i comuni mortali stanza e cucina e uno sgabuzzino), dove talvolta, insieme a Piceli dormiva anche Getulio. Su un tappeto, per terra. La stanza di Picelj mi ricordava quella di Giulio Carlo Argan che in una casa bella e spaziosa al Gianicolo, si era ritagliato per lui un loculo di 2 metri per 3, letto singolo in ferro e montagne di libri accanto che impedivano di muoversi. L’ampia casa era vuota. Solo una bella stanza luminosa era occupata da sua figlia Paola (una splendida ragazza molto intelligente), che lui avrebbe tanto voluto maritare. E non so se ci sia riuscito prima della sua morte. Quando si andava a Zagabria da Picelj, in un paesino vicino, abitava un altro importante protagonista dell’arte razionale, Julije Knifer, da cui ci fermavamo sempre. Ricordo che Knifer ci offriva un vino nero, ma proprio nero come l’inchiostro, di un suo amico contadino. Molto buono ma denso e forte da far girare la testa con mezzo bicchiere. Knifer in tutta la sua vita, un po’ come Buren, ma senza concedersi le distrazioni decorative del francese, ha dipinto una sorta serpentina geometrica. Sempre la stessa immagine di dimensioni diverse. E talvolta con toni del grigio differenti. Per tutta la vita. E oggi (post mortem) sta ottenendo uno straordinario successo, un po’ come Schoonhoven, sul mercato internazionale. Altri viaggi incredibili erano le visite a François Morellet a Cholet, uno sperduto (per me) paese della Francia. All’epoca Morellet era proprietario di una fabbrica di giocattoli tra le più importanti d’Europa, mi diceva: però quando arrivavamo smetteva i suoi panni da imprenditore e si dedicava a noi con grande slancio e affetto. Lui e sua moglie erano (la moglie lo è ancora) due persone impagabili. François amava raccontarmi di suo figlio gay che aveva aperto un ristorante di successo a San Francisco. Poi ne aprì uno a New York, dove i Morellet ci invitarono, a me e Helena, a cena. Ed era veramete squisito. Una sorta di nouvelle cuisine ante litteram per noi italiani (sto parlando del 1979/80). Ricordo ancora con un po’ di ansia un viaggio di ritorno da Cholet sempre con Getulio e con Pio Monti alla guida della sua molleggiante Citroen Pallas e io sprofondato nel sedile posteriore per dormire, con dietro la testa una scultura metallica aguzza di Morellet. Alla minima frenata improvvisa sarei stato sgozzato dal Morellet.  Perché questi viaggi? Getulio, per un paio di anni è stato un suggeritore e organizzatore di mostre da Pio Monti nella sua galleria Artestudio a Macerata, dove esposero (e vennero quasi tutti gli artisti di persona alle inaugurazioni) i più importanti cinetici e astratti dell’epoca: Albers, Max Bill, Vasarely, Morellet, Lohse, Cruz Diez, Camargo. ecc. Un programma da museo in una piccola galleria di provincia. Un altro incontro incredibile fu a Londra, dove io e Helena, seguiti da Getulio, ci recammo per intervistare la star dell’arte cinetica Bridget Riley. Fu un incontro cordiale con una persona molto intelligente e di grande successo, che lei però visse con parsimonia conoscendone le insidie.
Getulio e il suo fantomatico museo
Durante la conversazione con Bridget, Getulio le chiese in omaggio un’opera per un futuro museo in Croazia, dedicato ad Anna Palange, la sua compagna deceduta qualche anno prima. il Get, con la sua insistenza da elemosiniere, era riuscito a farsi dare un’opera da tutti i suoi colleghi di tendenza. Ma Bridget Riley, che conosceva poco Getulio e che era molto gelosa del proprio lavoro, si rifiutò, offrendo invece dell’opera e con molta reticenza, una grafica. Getulio ne rimase molto frustrato e per anni odiò, maledicendola, Bridget Riley. Nel salutarci Bridget ci disse: voi sarete sempre i benvenuti in questo studio ma non portatemi più questa persona che è con voi. Non voglio più vedere un collega che al primo incontro mi chiede un’opera. Getulio era un grande conoscitore dell’arte cinetica. Lui mi ha insegnato a leggere le opere di Albers, Vasarely e di tutti gli altri, con una acutezza e chiarezza che non aveva eguali. Però era anche uomo di esclusioni viscerali: mi ostacolava ad approfondire la conoscenza con Dadamaino, che io conoscevo bene e che apprezzavo, perché a suo avviso aveva falsificato le date delle sue opere, datandole anni ‘50. Detto da lui, che ha firmato tutte le sue opere, anche le ultimissime, mi diceva per ragioni fiscali, datandole anni ’60, era il colmo. Un giorno di molti anni fa gli chiesi notizie di Marina Apollonio, figlia del famoso Umbro Apollonio, che lui da giovane aveva frequentato e in un certo senso indirizzato. Marina, per quel poco che conoscevo, mi interessava molto e avrei voluto incontrarla. Non lavora più, è scomparsa, mi disse. Invece Marina esisteva, operava in silenzio e oggi è diventata una protagonista della op art, molto più affernata e richiesta di Alviani.

Modelli di Germana Marucelli con stoffe disegnate da Getulio Alviani.
Courtesy Domus.
L’uomo che ritagliava i francobolli

Ma torniamo indietro di qualche anno. Udine 1962/63, mi pare. Quando faticosamente da Roma arrivai la prima volta nel suo bellissimo studio minimal a Udine (omaggio dello zio), con la mia traballante Dyane, notai che nel lavandino di Getulio, galleggiavano numerose buste con francobolli da 25 lire (il francobollo per l’affrancatura normale di allora). Davanti alla mia sorpresa mi spiegò che ritagliando tre francobolli usati ne ricavava uno nuovo, ma questo richiedeva un lavoro certosino e di precisione che lo impegnava più che realizzare una sua opera. E Getulio ha continuato a ritagliare francobolli sino a poco fa e a utilizzare sempre buste riciclate (rivoltandole) in cui inseriva lettere scritte rigorosamente a mano (Getulio non ha mai usato la macchina da scrivere o il computer e usava un cellulare antidiluviano). Quando veniva da me in redazione per fare delle fotocopie, lo vedevo estasiato davanti alle centinaia di buste (soprattutto alcuni anni fa) con bellissimi francobolli. E diventavano suo appannaggio. Anche perché in redazione, conoscendo questo suo amore per i francobolli, i ragazzi della redazione avevano preparato un cestello di vimini con buste affrancate per Getulio. E per questa sua mania aveva ricevuto numerose diffide, e forse qualche condanna, dalle Poste. Ma lui, nichilista e anarchico, continuava imperterrito e felice a ingannare il suo nemico implacabile: lo stato, il sistema, le istituzioni e gli uomini che le rappresentavano. Era riuscito ad escogitare un sistema per cui utilizzava un biglietto della metropolitana almeno dieci volte. Sino al suo disfacimento fisico. Mi spiegò che timbrava solo un angolino e a qualsiasi controllo rispondeva che la macchinetta era guasta. A Udine, nei primi tempi che lo frequentavo, era innamorato di una sua bellissima compagna di infanzia, Angioletta Brollo che aveva corteggiato invano. Angioletta, donna bellissima e concreta, preferì sposare un giovane pilota delle Frecce Azzurre, il quale spesso, a bassa quota, come segnale d’amore, volava sopra la casa della moglie. Ricordo che Getulio, gelosissimo, quando vedeva questo aereo faceva le corna e urlando lanciava maledizioni: brutta carogna, ti voglio vedere schiantato in mare o sulla collina con il tuo aereo maledetto. Un giorno il povero marito di Angioletta non fece ritorno a casa. Con il suo aereo si era schiantato in mare. Poi Getulio sposò Angioletta, che diventò la sua ambasciatrice: la bellissima donna che si vede spesso all’interno dei suoi ambienti e che si riflette deformandosi sulle pareti d’acciaio è lei. Ma il matrimonio con Angioletta (di cui Getulio odiava ostentatamente i figli avuto dal marito deceduto) non durò a lungo. Getulio era un impenitente dongiovanni, per cui tutte le sue donne ufficiali venivano continuamente e platealmente tradite.
Getulio più generoso di Berlusconi

Un giorno mi disse: vedi, io pago le mie donne più di Berlusconi, il quale le retribuisce con 1500-2000 euro. Io a ogni donna che è stata con me, regalo un’operetta 20x20, che oggi (allora) vale almeno 5000 euro. E se vedi una mia opera 20x20, sappi che arriva da una mia storia con una donna. Questo formato è stato pensato per loro.  Agli inizi degli anni ’80 Getulio sparì dalla circolazione. Improvvisamente, dopo aver insegnato all’Accademia di Carrara, dove dopo alcuni anni era stato allontanato non ricordo per quale ragione, andò in Venezuela a dirigere il Museo Soto. Credo che lo abbia diretto egregiamente, con mostre di tendenza di alto livello. Ma Getulio, malgrado il rigore delle sue opere, era una persona molto disordinata e nei rapporti con le Istituzioni molto approssimativo. Credo che in Venezuela abbia creato qualche pasticcio, certamente per favorire il museo, ma poco trasparente. Per cui Soto lo cacciò in malo modo. Un esempio della sua anarchia fu una contestazione con Unicredit, a cui aveva progettato una splendida parete. Quando andai a vederla, un alto funzionario di Unicredit mi disse: signor  Politi, cerchi di convincere il Maestro ad emetterci una fattura di 250 mila euro, come stabilito. Lui non vuol saperne e ci chiede di essere saldato in contanti. Se non fosse intervenuto il gallerista Paolo Seno, suo grande amico, intestandosi la fattura e per riversargli poi una quota in nero, Getulio avrebbe rinunciato all’importo. Non sono mica pazzo io, mi diceva. Con una fattura da 250 mila euro divento subito visibile e perseguitato dalla Guardia di Finanza per tutta la vita. Talvolta, camminando per Milano, allorché si incontrava un vigile urbano, un poliziotto o un carabiniere, Getulio fingendo di parlare con qualcuno ma guardando di traverso il suo nemico, incominciava ad inveire: “sei una fogna, un figlio di puttana, delinquente, ti vorrei vedere morto, ecc”. Per lui questa era una grande soddisfazione che rasentava la felicità. Ma la sua grande ossessione, il Male Assoluto, Il Grande Satana, era la Guardia di Finanza da cui, senza ragione, pensava di poter essere perseguitato, pur non avendo nulla da temere. Solo qualche quadretto venduto in contanti. Anzi, molti. Forse tutti. Spesso andavamo insieme a Trevi, in Umbria, dove aveva conosciuto un mio amico falegname, Luigino e che lui aveva stabilito fosse il migliore in assoluto in Italia e da cui realizzava le sue opere. Dal 1990 in poi, tutte le opere di Getulio Alviani sono state realizzate nella falegnameria Luigi Venturini di Trevi. Al ritorno riponeva nella mia macchina tutte le opere realizzate e tornavamo a Milano. Ma in un’area di parcheggio a Prato, lo aspettava il gallerista, ora scomparso, Marchese, della omonima galleria. Getulio gli consegnava dieci opere 30x30, oppure 40x40 intascando in contanti un milione ad opera. Lui apriva il bagagliaio della mia vettura, consegnava le opere e tornava in macchina con una mazzetta di dieci milioni di lire in contanti. Senza parlare, quasi fosse un rito segreto. Questo scambio avvenne più e più volte. Ma Getulio era un abilissimo rifacitore di opere altrui (per piacere e sfida). Anni fa pubblicò un sontuoso libro, in collaborazione con la Galleria Seno e Albert Totah, allora con la galleria a Milano, su Albers, con decine di opere riprodotte. Pare che la Fondazione Albers  ne abbia disconosciute almeno la metà. A me ha regalato due meravigliosi Albers (e un Fontana). Con sul retro firma, timbri, etichette di gallerie, ecc. Tempo fa il rappresentante di una primaria casa d’aste tedesca passando a salutarmi vide alla parete quel bellissimo Albers e mi chiese se volevo proporlo all’asta. Conoscendo la provenienza e la storia di tutti gli altri Albers dissi di no. Lui mi chiese comunque la foto da mostrare ai suoi colleghi. Mi telefonò alcuni giorni dopo dicendo che tutti i suoi colleghi e i maggiori esperti tedeschi di Albers, trovavano l’opera straordinaria. Per sicurezza inviò le foto alla Fondazione Albers, la sola che abbia il diritto di autentica sull’artista. Pochi giorni dopo il mio amico tedesco mi chiamò addolorato e arrabbiato con la Fondazione perché si era rifiutata di  autenticare quel capolavoro. Mentre il Fontana che Getulio mi ha regalato non oso nemmeno appenderlo sulla parete, immaginando la provenienza.
Graziella Lonardi Buontempo con un'opera di Getulio Alviani.
 Foto Piersanti.


Una mia goliardata di cui sono pentito



Getulio possedeva un piccolo appartamento a Cortina dove spesso si rifugiava per periodi lunghi e dove riceveva anche le sue amiche. Tutte le finestre dell’appartamento erano chiuse ermeticamente per farlo apparire disabitato. Lo stesso era il suo appartamento a Milano in via Fauché. E il portiere, se non si era attesi, a tutti diceva: il maestro è fuori e non so quando torna. Tutte queste preoccupazioni per timore di essere scovato della Guardia di Finanza. Get amava l’anonimato e la clandestinità come nessuno. Ed era disordinato e inaffidabile con le sue cose, ma quando si parlava del suo lavoro cambiava radicalmente. Nessuna concessione sul lavoro suo e dei suoi colleghi, che difendeva e per cui ha lavorato sino allo sfinimento per promuoverli. Si lamentava spesso (parlo di qualche anno fa) che sul mercato Max Bill o Albers fossero sottovalutati. “Pensa che schifo”, mi diceva, “che vergogna, due geni che costano quanto me”. Io e Getulio avevamo un rapporto fraterno ma sempre conflittuale. Dopo la morte di Anna Palange, sua compagna negli anni Ottanta, ha abitato da noi, in una stanzina, un paio di anni. Quando ci recavamo insieme della mia casa in Versilia, lui voleva assolutamente dormire in un ripostiglio con un letto a castello, circondato da scope, detersivi, bottiglie di acqua minerale e di vino. Lasciando vuota una bella stanza con balcone. Collaborava spesso con Flash Art, scriveva su tutti gli artisti cinetici con grande passione e competenza (spesso ripetendosi, ma era inevitabile) ma mai mi ha chiesto qualcosa per se stesso. Anzi, per pubblicare una sua intervista o articolo sul suo lavoro dovevo insistere. Invece mi chiedeva spazio per i suoi colleghi, portandomi in redazione testi scritti a mano, con incollate sopra le correzioni. Con grande disappunto dei miei redattori che dovevano trascrivere e interpretare la sua calligrafia.

Alcuni anni fa, per paradosso e per gioco, io (goliardicamente) gli modificai un testo che lui aveva scritto contro la Transavanguardia che invece io avevo sostenuto. Lui considerava il loro successo insultante per l’arte. Soprattutto per la sua tendenza che rappresentava l’antitesi della Transavanguardia. Io prima di andare in stampa cambiai gli aggettivi negativi in positivi e, da un duro attacco alla Transavanguardia, ne uscì un testo a favore. Pensavo ne avessimo riso insieme e poi magari, sempre insieme, avremmo pubblicato una smentita. Qualche giorno dopo me lo vidi arrivare in ufficio con gli occhi iniettati di sangue. “Io ti ammazzo” mi disse, e mi aggredì fisicamente come non aveva mai fatto con nessuno. Pensavo di conoscerlo abbastanza da soprassedere allo scherzo. La sua aggressione mi sorprese e mi raggelò. Mai lo avevo visto così indignato e furioso. Questa è la mia vita mi gridò e non permetto a nessuno di scherzarci. Su tutto il resto puoi prendermi anche in giro, anche sul mio lavoro, ma non permetto scherzi quando io scrivo sull’arte e sui miei colleghi. È questa la più grave offesa che abbia mai ricevuto. Pensa cosa diranno i miei colleghi. Capii allora di aver sbagliato, gli chiesi scusa ma non si calmò. Nemmeno quando nel numero successivo feci una rettifica spiegando lo scherzo. Malgrado la nostra amicizia e continua frequentazione, la ferita non si è mai rimarginata. Ogni tanto la storia riemergeva dalla sua coscienza ferita.



Alviani, un avaro generosissimo (con gli altri)  

Getulio era un avaro incallito. Camminava chilometri e chilometri senza prendere mai un mezzo pubblico. Oppure manometteva i biglietti della metropolitana usandoli dieci, venti volte. Il regalo più bello per lui? Un biglietto del tram. Ricordo che a New York Getulio attraversava perpendicolarmente tutta Manhattan: quindici chilometri? Forse di più. Senza autobus né metropolitana. E mai parlargli di taxi. Il taxi mi diceva mi ruba il denaro: se mi costa 10 euro vuol dire dieci in meno per me e dieci in più per lui. Fanno venti euro. Mi sento defraudato di venti euro. Una concezione dell'economia molto particolare. Più radicale del poeta Ezra Pound che pensava di eliminare la tassazione imponendola nel momento dell’emissione da parte della Banca d'Italia.
Ma la sua avarizia era speciale, tutta rivolta su se stesso. Un giorno arriva a casa mia e dice: “qui ci sono trentamila euro. A me non servono, forse a te sì”. A un mio collaboratore cingalese, Mendis, che a seguito dello Tsunami aveva subito danni alla sua casa nello Sri Lanka, donò settemila euro. Il ragazzo si ricostruì una villa. A Pio Monti prestò, sapendo di non riaverli mai più, 80 milioni di lire. Potrei citare altri episodi di generosità nei confronti di terzi, incredibili. Ma altrettanti episodi di una avarizia immotivata nei suoi confronti. Ad esempio, faceva la spesa una volta la settimana, il sabato, nel mercato rionale sotto casa di via Fauché: scendeva dopo le 13, mentre le bancarelle smobilitavano e si riforniva di verdure e di cereali aprezzi di saldi, spendendo, mi diceva orgogliosamente, un euro e arrivando al massimo a tre. Negli anni ’90 gli morì la sua donna, Anna Palange, la sola donna che abbia amato, lui diceva e a cui aveva lasciato in eredità tutto. Appartamenti, immobili, opere. Mentre la povera Anna era in coma io gli chiesi se aveva intestato qualcosa a lei. Tutto mi disse. Cosa intendi per tutto? Tutti gli immobili e tutte le opere. Ma tu dove andrai ad abitare risposi. Lui cadde dalle nuvole. Non si era reso conto che era diventato un senzatetto. Allora io e il comune amico François Inglessis abbiamo raggiunto il cappellano della clinica e con la forza, lo abbiamo costretto ad ufficiare un matrimonio in punto di morte: la povera Anna era in coma e secondo le norme della chiesa senza il consenso di entrambi non si poteva celebrare il matrimonio. Invece la nostra determinazione che spaventò il povero cappellano la fece unire in matrimonio, salvando immobili e opere di Getulio. Purtroppo negli ultimi due mesi della sua vita è stato creato un cordone sanitario attorno a lui, con la complicità di molte persone, per cui ci è stato impossibile salutarlo. Il permesso arrivò quando Getulio era in coma e non poteva più parlare. Noi suoi amici, saremmo stati felici di abbracciarlo e raccogliere i suoi ultimi pensieri (spesso Getulio era un pensatore profondo e originale), invece questo nostro desiderio ci fu negato. Perché purtroppo non coincidevano con le aspettative di chi lo teneva segregato. Alla sua ultima “fidanzata”, a cui Getulio aveva regalato un cospicuo gruppo di opere (pare 44) e a cui aveva promesso di sposarla, è stato impedito avvicinarsi al suo “fidanzato”. Proprio come accadde a Marta Marzotto, grande amore e ispiratrice di Guttuso a cui fu negato di incontrare il suo uomo morente. Perché la moglie (dimenticata da decenni) e la sua corte si impadronirono di un uomo, Renato Guttuso, minato dalla malattia e impossibilitato a reagire. Ma la vita è anche questo!
PS Mi sono dilungato troppo lo so. Ma dopo 50 anni di frequentazioni, di cui alcuni vissuti in simbiosi, su Getulio Alviani potrei scrivere non uno ma dieci libri. Più di quanto potrei scriverne per una mia autobiografia. Dal prossimo Amarcord, vi prometto, sarò
più breve.

Contributi
Grazia Varisco e i nostri incontri
Caro Giancarlo Politi,
I nostri incontri casuali in tanti anni sono stati frequenti, i contatti professionali piuttosto sporadici ma chiari. I tuoi Amarcord confermano un’attività intensa e un vissuto appassionato e partecipe alle vicende dell’arte, degli artisti, e...del contorno, di cui mi scopro poco informata e curiosamente interessata. Grazie della sollecitazione a colmare lacune di percorsi e della tua gentile  citazione che mi riguarda. Buon Amarcord.
Grazia Varisco

Rapporti sporadici. Peccato
Ciao Grazia,
hai ragione, i nostri rapporti professionali sono stati sporadici e me ne dolgo. Quando si è giovani si vuole conquistare il mondo e si perde di vista l’orto del vicino, talvolta ricco e profumato. Ma ho perduto frequentazioni più assidue e professionali anche con Gianni Colombo (che spesso veniva a salutarmi in via Farini, insegnando lui alla Nuova Accademia di allora, in via Bassi, a duecento metri dalla nostra redazione) e desideroso di parlarmi del suo lavoro, o Dadamaino con cui più volte ci siamo ripromessi di incontrarci a studio e tutto il vostro gruppo e molti altri. Avverto anche una forte nostalgia di Gianfranco Pardi, artista che meriterebbe più attenzione. Io viaggiavo a New York ogni due mesi ma anche a Londra, Parigi, Berlino, talvolta anche in Asia. E a Praga ovviamente. Ma poco in Italia e anche a Milano. Ma soprattutto mi sono lasciato influenzare, come ho spiegato nel mio Amarcord di oggi, da Getulio Alviani, che per sfogare i suoi livori personali, mi portava solo attraverso i suoi itinerari, impedendomi di allargare lo sguardo altrove. 
Cara Grazia, io ti ho seguito come ho potuto, (ho visto una tua opera, la prima volta nel 1962, a Roma, alla mostra dell’arte programmata presentata da Umberto Eco e poi mi pare a San Marino e altrove). Bellissime opere in sintonia con le ricerche del tempo. Ma anche se non ci siamo frequentati ho sempre apprezzato il tuo lavoro, svincolato dalle ideologie che all’epoca avvelenavano l’aria e l’arte. Qualche anno fa abbiamo pubblicato una tua bellissima intervista. E spero si ripresenti qualche occasione per riprendere il filo. Magari con mia figlia Gea, anche se Flash Art è un camaleonte pronto sempre ad interpretare lo zeitgeist. Ed ora è qualcosa di diverso (credo migliore) della mia creatura. I tempi invece sono peggiori di quelli di una volta.

Liuba vuole andare da Costanzo
Caro Giancarlo,
che bello questo amarcord con il racconto dei tuoi inizi, delle tue passioni e dello sviluppo della tua strada, mischiato alla curiosità e al sapore delle dinamiche di un periodo storico totalmente analogico che poco conosciamo noi della nostra generazione e di quelle successive.
Mi ha divertito tantissimo leggere le vicende della tua partecipazione a Lascia e Raddoppia e di tutta una catena di fatti ad essa connessi, e assaporare le dinamiche di quel periodo. Tutto ciò mi ha riportato alla luce anche un fatto curioso, che mi riguarda, e che avevo dimenticato. A dicembre 2000 scrissi a Maurizio Costanzo per farmi invitare alla sua trasmissione televisiva, ufficialmente per parlare in tv della realtà dei giovani artisti - di cui non ne parlava quasi nessuno, eravamo come mosche bianche invisibili per il mondo - ma con il sotterraneo intento di farci una 'performance nascosta' prendendo un po' in giro la trasmissione senza che nessuno se ne accorgesse, se non chi la vedeva con certi occhi. Se mi invitavano sarei andata in trasmissione vestita da damina dell'800, a sorpresa, per dimostrare che se la gente facesse con la moda ciò che fa con l'arte andremmo vestiti con gli abiti di cento anni fa. Scrissi una letterona a Costanzo, e ricordo che fu difficilissimo trovare l'indirizzo diretto, che non trovai e la mandai alla trasmissione, senza ricevere mai risposta e senza nemmeno sapere se lui l'aveva letta e ricevuta. Grazie Giancarlo, attraverso il tuo amarcord, hai attratto questo mio amarcord - molto più recente del tuo, ma che mi fa sorridere e mi piace compartirlo con voi. Ero davvero convinta di andare da Costanzo vestita coi vestiti ottocenteschi per parlare della desolata situazione dell'arte contemporanea nell'opinione pubblica nostra società!
La lettera che avevo scritto, un po' pomposa e inconcludente, forse tocca un punto che oggi è ancora degno di essere toccato, e anche se la situazione è un poco migliorata poichè di arte oogi se ne parla di più, i pregiudizi e la non conoscenza della realtà degli artisti sono sempre presenti e difficili. Come scrivevo nella lettera  "La difficoltà e la tenacia nel fare arte, nel cercare di proporre contenuti, è condivisa da molte persone che, lottando, vanno avanti. Oppure ci sono anche tanti altri che, sempre a causa delle stesse difficoltà, abbandonano o accettano compromessi. Di tutto ciò sarebbe importante a mio avviso parlarne. Far emergere questo mondo misterioso e sommerso degli artisti che spesso è malvisto proprio perché non si conosce nella sua realtà di persone concrete. Sarebbe importante far conoscere al grande pubblico che esistono tanti talenti artistici, tanti giovani che credono nell’importanza dell’arte e vi faticano, ma che spesso non possono continuare perché lasciati completamente a sé stessi…".
Sono passati esattamente 18 anni e poco o nulla è cambiato, e se Costanzo leggesse queste righe e mi invitasse, forse forse ci andrei. Un abbraccio. Liuba

Caro Costanzo, invita Liuba
Caro Costanzo
non ci conosciamo. Ma se qualcuno ti riporterà questo messaggio, per favore invita alla tua trasmissione (ma esiste ancora?) Liuba, nipote del famoso (per me) poeta Elio Pagliarani. Ti assicuro che non te ne pentirai.

Marco Nereo Rotelli
Caro Giancarlo, bello il racconto sul tuo viaggio nella poesia. Ho anche apprezzato le parole su Pound, le tue e quelle del bravo Bolzoni. Quest’anno ho realizzato con Yoko Ono una installazione nel giardino del Castello di Brunnenburg nel segno di una poesia totale. Salutandoti, una domanda: ma la poesia non ti sta ri/chiamando? Hai quasi bistrattato le tue poesie giovanili che forse sono un tuo volto. Non le ho mai lette. Ma questo mostra la poesia: il volto dell’essere.
PS. Apro l’anno prossimo in zona Mecenate ‘Art and Poetry' dove vorrei invitarti. E’ una ex fabbrica, fu un giocattolificio, dove troveranno posto le porte del 'bunker Poetico' che realizzai alla Biennale di Venezia diretta da Harald Szeemann, ma anche tante opere create con i poeti che ho frequentato.
Spero verrai a trovarmi. Marco Nereo Rotelli 

La poesia è un peccato di gioventù?
Caro Marco, le mie poesie? Peccati di gioventù. E ora che ho superato la terza età, ritorno fanciullo e rileggo i grandi poeti e ciò che io ho scritto nel 1956, il mio “anno d’oro”. Direi anche l’ultimo. E ho sentito più vergogna che orgoglio. Mia figlia Gea, prima della mia dipartita, vorrebbe pubblicare un volumetto. Ma io faccio fatica a mettere insieme trenta poesie decenti. La poesia, quella vera, è stata soppiantate dai nuovi menestrelli che hanno saputo interpretare  e cambiare il mondo delle idee e delle parole (Bob Dylan, Jimi Hendrix, John Lennon, Jim Morrison, Freddy Mercury, Amy Winehouse e nel nostro piccolo Fabrizio De André). Il confronto con loro e i “poeti laureati” come direbbe Montale, è impari. Alla poesia tradizionale restano solo parole al vento. Auguri per il tuo spazio anche se la vedo dura in una città come Milano. La tua idea funzionerebbe bene a San Francisco o anche a New York. L’Italia è un paese non sufficientemente disperato per ritrovarsi nella poesia.

Un appello per Pietrasanta
Caro Direttore,
leggendo e rileggendo le sue parole mi ritrovo nello stesso spirito che la porta a ricercare nella Versilia il giusto luogo dove ‘scrollarsi dai polmoni la polvere di Milano’. Conduco una vita simile alla sua. Lavoro a Milano dove faccio il primario ortopedico, in una nota struttura del centro; amo la chirurgia dell’anca e del ginocchio, ma l’usura biologica del mio lavoro mi impone la necessità di rifugiarmi nell’arte e proprio a Pietrasanta nei week end. Lei non lo ricorderà ma proprio li, la scorsa estate, ci siamo conosciuti nella mia galleria in via Garibaldi, la Futura Art Gallery, teatro di due personali, proprio di Giuseppe Veneziano e Robert Gligorov, gli artisti da lei citati per il comune amico Egidio Giorgi. Perchè ho sentito la necessita di aprire una galleria in un periodo storico oggettivamente improbabile? Per lo stesso incondizionato amore per l’arte, per incontrare gli amici, ma senza mai perdere di vista l’obiettivo di voler fare le cose bene. Ho imparato che anche nell’arte sono necessari step rigorosi, quasi scientifici, come nel mio lavoro. L’improvvisazione non ti consacra a titolo di gallerista, men che meno il solo riempire di opere un garage lo può fare. Il mio sogno? Cercare di smuovere Pietrasanta dal suo peccato originale che la porta ad essere autoreferenziale. Il direttore della mia galleria, Claudio Francesconi, dice ‘sembra sempre che quello che succede fuori non si veda a Pietrasanta e quello che accade a Pietrasanta, fuor da qui, non lo sa nessuno’. Ha ragione…. Io vorrei rompere questa barriera con un programma ambiziosissimo per la fine di questo 2018 e per l’anno a venire, in una piccola galleria che ha l’ardire di presentare una scaletta quasi museale, con molte opere esposte, provenienti da collezioni private e che neppure saranno in vendita.
La nostra regista sarà la professoressa Vittoria Coen… e quindi ci portiamo un po' di Milano: i cinetici (Toni Costa, Dadamaino, Davide Boriani, Gianni Colombo, Armando Marrocco, Franco Grignani). Una personale di Giorgio Griffa. Una collettiva tutta sull’acciaio. Fausto Melotti con Angelo Bozzola. Una personale del francese Philippe Delenseigne. Una personale del ritrovato Angelo Bozzola del MAC. Caro Direttore, venga ancora a scrollare le nebbie Milanesi dai polmoni a Pietrasanta, ma non dimentichiamoci di portare nella ‘piccola Atene toscana’, il sapore di quella Milano, che oggi è il nostro inevitabile motore italiano. Ci aiuti a far dialogare la Pietrasanta, che tutti amiamo, con il resto del mondo. Augusto Palermo.

La Versilia, roccaforte del cattivo gusto
Caro amico Palermo,
io amo profondamente Pietrasanta e quando riesco a venire in Versilia (sempre meno) non mi faccio mancare una visita a questa splendida cittadina. E una cena a Il Posto dell’ottimo Simone che conosce i miei gusti spartanii: da lui sempre e solo spinaci e una sogliola. Purtroppo non amo l’atmosfera culturale di Pietrasanta. Credo che sia così bella che non abbia bisogno di essere contaminata dall’arte contemporanea. L’arte contemporanea non si addice alle nostre bellissime città storiche che giustamente da essa si sentono deturpate (Firenze, Siena, Pisa, Perugia, ecc.). E Pietrasanta è deturpata dalle mostre pubbliche (come quasi sempre in tutto il nostro Bel Paese), dettate da una programmazione politica che fa inorridire. Una piazza così bella va lasciata libera allo sguardo e non invasa da bancarelle e mostri d'arte. Bastano i bar un po’ stipati che però ti permettono di godere di tanta bellezza. Il programma della sua galleria, anche se un po’ confuso è buono per Pietrasanta ma andrebbe ripulito. E visto che lei non pensa di arricchirsi con l’arte (spero sia ricco di suo) e Pietrasanta non è la location ideale, cerchi di fare un po’ di ordine. Purtroppo vedo la Versilia (in primis Forte dei Marmi), roccaforte del cattivo gusto in generale e artistico n particolare, in mano a politici che vogliono occuparsi di arte e che combinano solo degli sfracelli. Facendo “rabbrividire" il marmo per il cattivo uso che ne fanno certi “artisti”. Il marmo è un materiale sacro e nell’arte va dosato con sapienza e cautela. Meglio un buon bidè (o bidet) di tante brutte sculture che infestano la Versilia. Se tornasse Michelangelo, per prendere le distanze dal cattivo uso del marmo, userebbe la plastica, come ha fatto il grande Pistoletto a Firenze. Per rincorrere l’eternità gli artisti usino il cervello e il cuore ma non il marmo.


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