mercoledì 25 gennaio 2017

Rupextre 1 - Matera 2010

Pubblicazione postume sul blog di Utopia, del Progetto Rupextre (1)

Da UnDo.Net del 13/01/2011

Una residenza in cui artisti, videomaker, soundperformer, antropologi e curatori hanno esplorato il territorio della Murgia materana e i suoi vuoti: sia quelli dell'architettura rupestre, che quelli culturali. Ecco ora una riflessione a più voci, curata da Eleonora Farina e Michela Gulia, che offre uno scorcio su pratiche, progetti, "visioni" che oggi interessano il Sud; dentro e fuori dalla Basilicata. Perchè "i vuoti danno da pensare". 





C’è una parola molto bella sulla quale Jacques Derrida ha riflettuto a lungo: la parola è chōra e la troviamo nel "Timeo" di Platone. Tradotta in molti modi (come luogo, posto, area, regione, contrada; ma anche, ed è Platone stesso a fornirci queste figure, come madre, nutrice, ricettacolo, porta - impronta) questa parola, ci dice Derrida, sfugge però ad ogni interpretazione indotta da proiezioni retrospettive. Chōra infatti non è il luogo (c’è anche una storia degli articoli determinativi), ma ciò che dà luogo, fonte (ricettacolo) di tutte le determinazioni, ma in sé costantemente indeterminata; "(…) uno spazio apparentemente vuoto, sebbene non sia senza dubbio il vuoto (…)".[1] Una parola quindi interessante se inquadrata nel contesto di questo progetto e del suo tema ("Rupextre: i sensi del vuoto"), e ancora più interessante dal momento che spesso, nel linguaggio comune, si utilizza "vuoto" come equivalente di "nulla" o "niente". 


Partendo da questo concetto abbiamo deciso di utilizzare le giornate della residenza per individuare e confrontarci con quelle pratiche, quei progetti, quelle "visioni" che oggi interessano il Sud, in particolare Basilicata e Puglia. Progetti come quello di archiviazioni, sviluppato in collaborazione con la Fondazione SoutHeritage di Matera e che verrà presentato a breve; Motore di Ricerca pensato come un ponte in grado di creare connessioni tra varie figure, enti e istituzioni che si occupano di arte contemporanea e non, dentro e fuori il territorio regionale; e ancora la rete di associazioni come ARTErìa e Amnesiac Arts, solo per citarne alcune.

I testi che seguono sono il (nostro) tentativo di concludere la residenza con una riflessione a più voci, che possa generare nuovi spunti per le future edizioni di "Rupextre".


[1] Derrida Jacques, "Il segreto del nome", Jaca Book, Milano 1997, p. 60.


Eleonora Farina e Michela Gulia



Rupextre: i sensi del vuoto

Residenza per artisti, videomaker, soundperformer, operatori culturali e studiosi


Un progetto promosso da ARTErìa Associazione d’Arte e Cultura di Matera che si è svolto a Matera dal 4 all’8 dicembre 2010. Nelle ore mattutine le attività hanno coinvolto i partecipanti in escursioni nel territorio rupestre, mentre nelle ore pomeridiane/serali si sono svolte azioni comuni aperte al pubblico quali discussioni, proiezioni di video, performance musicali e presentazioni delle ricerche personali. Le persone coinvolte (provenienti dalla Basilicata, dall’Italia e dall’estero) hanno avuto l’opportunità di scoprire e di indagare il territorio della Murgia materana e dei Sassi allo scopo di sperimentare nuove ed inedite possibilità di lavoro sia individuale che interdisciplinare. La residenza ha impegnato i partecipanti in un incontro sensibile con l’ambiente, i luoghi urbani ed extraurbani, con le dimensioni ambientali, archeologiche, paesaggistiche, storico-architettoniche, antropologiche e politico-sociali. “I sensi del vuoto” – tema della prima edizione 2010 – è stato dedicato all’immaginario del vuoto, da un lato concretamente agganciato alla cultura dello scavo distintiva dell’architettura rupestre, dall’altro metafora dei vuoti culturali di cui il territorio è interessato.



Comitato scientifico
Francesco Careri, (Roma), Eleonora Farina (Berlino), Michela Gulia (Roma), Francesco Marano (Matera)


Esperti del territorio

Michelangelo Camardo (Matera), Franco Caputo (Matera), Gianfranco Lionetti (Matera), Marco Pelosi (Matera)


Artisti ospiti

Roberto Corradino (Bari), Dragan Culic (Sarajevo - Bosnia), Bruno Di Lecce (Berlino), Rosa Anna Di Lella (Roma), Andrea Facchi (Castelguelfo di Bologna - BO), Federico Faeta (Roma), Carlo Fatigoni (Perugia), Angelo Riviello (Campagna - SA), Angelo Sinigallia (Cisternino - BR), Dino Viani (Chieti)


Artisti del territorio

Luca Acito (Matera), Pino Basile (Altamura - BA), Dario Carmentano (Matera), Paolo De Santoli (Terlizzi - BA), Gerardo Fornataro (Matera), Pino Lauria (Matera), Carmen Laurino e Massimo Lovisco (Potenza), Eufemia Mascolo (Altamura - BA), Morena Tamborrino (Laterza - TA)


Dario Carmentano: artista visivo, è tra i fondatori dell’Associazione Culturale ARTErìa (Matera); nel 1998 ha collaborato all'organizzazione di ORESTE 2; è co-ideatore del programma di residenza "Rupextre".




Ivan AbbattistaGiuliano Chimenti e Francesco Piarulli sono tre studenti iscritti al corso di Grafica editoriale presso l'Isia - Istituto Superiore per le Industrie Artistiche - di Urbino. Provengono rispettivamente da Corato (BA), Bari e Roma.

Avendo affrontato nel maggio 2010 un progetto di massima di allestimento di una vecchia tipografia all'interno dei Sassi di Matera, hanno deciso di seguire la stessa direzione anche nello sviluppo della tesi magistrale, questa volta estendendo l'ambito di intervento all'intera città. Il tema della loro ricerca ha come macro-obiettivo lo sviluppo di un progetto di valorizzazione del territorio che, partendo da Matera e allargandosi all'area lucana, stabilisca un asse strategico tra economia e cultura. Prima di innestare un progetto corretto e adiacente al territorio, stanno portando avanti un lavoro di indagine multidisciplinare sullo stesso che, attraverso lo strumento dell'intervista, permetta di confrontare le risposte di cittadini, intellettuali, politici e imprenditori della scena lucana. Per questo hanno deciso di trasferirsi a Matera, dove hanno una casa oramai da un mese e, nella volontà di cominciare a stabilire un primo contatto con la nuova città, hanno deciso di partire da “Rupextre”.



I: È cominciata così, abbiamo deciso di andare ad ARTErìa domenica pomeriggio. "Rupextre" era iniziato due giorni prima ma forse eravamo ancora in tempo. 



F: Non c'è mai stata occasione di sentirsi a disagio o fuori luogo.



G: È stupefacente come sia bastato chiedere per ricevere attenzione e l'invito alla gita del secondo giorno nel Parco della Murgia materana con una compagnia ed una guida d'eccezione.



F: Gianfranco (Lionetti) - la nostra guida - vive il parco; non è per escursioni cotte e mangiate. Parliamo con una persona che abita profondamente questo luogo, che lo sente proprio. Pochi la pensano come lui; così il sentiero prende forma, il percorso diventa comodo, la meta precisa. Persone come Gianfranco dovrebbero essere ascoltate di più, sarebbe bello condividere con lui una nuova camminata.



I: Gianfranco non fa mai escursioni con più di due, tre persone, ed anche questa volta la nostra non è una camminata turistica. E poi, cos'è l'escursione nel parco? Arrivare alla meta, fotografare e riempire di ricordi il rapido ritorno a casa? Oppure il percorso è esso stesso una meta? Nei primi duecento metri del parco ci sono già un'infinità di piante, di odori. Il contesto, meglio la prassi, rende le sue parole fuori dal comune. Facciamo la camminata con Gianfranco e Franco (Caputo), le nostre guide, forse non solo del parco.

Interessanti le texture di Bruno (Di Lecce). Le texture delle caverne, un esempio di comunicazione visiva involontaria, una traccia del tempo. Tutti sembravano interessati alla sua operazione, forse attratti dalla performance in sé per sé. Le texture di Bruno come una performance. Ciò che contava era il fatto che appoggiasse il lucido sulla parete della caverna, ci passasse sopra un pastello di cera rosso e ri-arrotolasse il lungo foglio davanti alla telecamera di Rosa Anna (Di Lella).


G: Potentissima è stata l'esibizione estemporanea di Morena (Tamborrino) con la sua voce vigorosa nella penombra della chiesa rupestre.



I: Abbiamo i ritratti di tutti, stesso taglio, sfondo uniforme. L'escursione nel parco si potrebbe raccontare così, una sequenza di ritratti. È stato incredibile osservare i lavori di ognuno. E poi sedersi a cena insieme, la cena come un taccuino dove appuntarsi i ricordi della giornata trascorsa. Diario di viaggio, a righe, tascabile.

Che ricadute avrà "Rupextre" sulla città? Organizzare una residenza di artisti mi sembra eccellente, ma che significato ha se solo pochi partecipano? Si potrebbe forse fare qualcosa in più per coinvolgere altra gente?


G: Sembra paradossale che in una città piccola come Matera eventi di questa portata non possano avere una risonanza maggiore. Tanto più se si pensa a tutte le associazioni che operano in questo territorio.



F: Mi sembra che su questo si possa lavorare. Nel senso: come gli eventi cittadini si trasformano in fattore strategico per la città?



I: Sarebbe interessante fare un'indagine di tutte le associazioni culturali materane e in generale lucane, capire come operano, cosa organizzano. Esiste un network di queste associazioni? Sono capaci di lavorare tra loro, generare idee comuni? Hanno consapevolezza del loro ruolo in questo territorio?



F: Bruno ci ha parlato di una sua seconda avventura culturale avuta poco dopo quella di "Rupextre". Sul Pollino con un gruppo di filmmaker, fotografi, montatori, microfonisti e via discorrendo e membri dell'associazione promotrice dell'evento. L'entusiasmo con cui ci ha descritto questa seconda esperienza nel giro di un mese sul territorio mi fa credere che esiste la possibilità di andare oltre il proprio naso, di non accontentarsi. Una persona motivata dovrebbe poter avere sempre questo privilegio di partecipazione entusiasta, condivisa.



I: Mi è sembrato che Loredana (Filoni) fosse realmente interessata al nostro lavoro di tesi. Parlare di rete economia-cultura qui sembra una storia che si ripete uguale da anni. Ci hanno provato tutti, i loro sguardi sembravano chiederci: pensate di riuscirci voi tre? No, certo che no. Ma parlarne ha scatenato la prima domanda: dov'è il problema, dov'è che si inceppa il meccanismo?

Abbiamo prodotto poco tuttavia, non siamo stati in grado di generare un risultato all'interno della residenza, un'azione, qualsiasi cosa.


F: Bisognava dare un segno, qualcosa che facesse capire che la nostra era una partecipazione attiva e non semplice presenza; non per esibirsi o produrre qualcosa di necessariamente utile al nostro fine, ma un oggetto simbolo di una condivisione, un oggetto a testimonianza della qualità del tempo passato insieme.



I: Mi sarebbe piaciuto vedere i cittadini, gente che nella vita fa tutt'altro, attratti da questa esperienza. Una visione allargata. Questo mi sembra manchi tuttora nella città. Sembra che le persone si siano abituate alla modestia di una civiltà ovattata.



F: Che l'associazionismo sia bene e insieme male? Probabilmente lo sforzo maggiore andrebbe fatto verso la città, l'unico modo di generare cultura è sostenerla e diffonderla. La città non può solo essere una fonte a cui attingere per produrre ma deve avere il suo ritorno, deve poter usufruire di questa cultura prodotta. Si dovrebbe portare nelle strade tra la gente il dibattito culturale, chiudere il cerchio.



I: Matera è una città incredibile, luogo unico al mondo. Eppure i Sassi sono desolati, vivendo qui ci passerei tutto il giorno, tutti i giorni. Ma ragazzi non ne ho visti, qualche bar, ristorante, albergo di lusso, stop. Non ho mai visto un teatro vuoto il giorno della prima! 



F: Forse non è più una generazione che va a teatro. Ma non dobbiamo dimenticare che quel teatro per molti è un lontano e difficile ricordo. La nuova Matera dovrebbe crescere con i Sassi e non per i Sassi.




A seguire una riflessione sul tema del Vuoto, testo scritto da Francesco Careri. Careri è professore a contratto presso la Facoltà di Architettura di Roma Tre e membro fondatore del Laboratorio di Arte Urbana Stalker.


Vuoto


Scrivo questa parola su quella che Microsoft Word mi propone come “pagina vuota” e già realizzo di essermi immerso nell’inevitabile contraddizione dello scrivere sul vuoto. Questa pagina era vuota fino a pochi secondi fa e l’ho riempita con la parola “vuoto”. E adesso ci sono già tre righe. Ora quattro righe.



E più passa il tempo e più questa pagina si riempie a meno di non volerla far ritornare vuota, cancellare quanto è stato scritto fin qui o chiudere il file senza salvare. Scelta radicale che esprime profondamente l’ineffabilità del vuoto. E scelta coerente peraltro e assolutamente pertinente al tema che stiamo trattando.



Ma visto che oramai ci siamo dentro, mi dico, proviamo a riempire questo spazio e a trasformarlo in un luogo, a riempirlo di parole, di scripta che, come i mattoni, manent.

E a questo punto salvo il file che chiamo “vuoto.doc” e metto nella cartella “vuoto” sul desktop, con il rischio di buttarla in un momento di disattenzione, in quanto vuota, appunto.


Il vuoto è un rischio.



È una zona di incertezza e piena di trappole dove vige la regola che “là dove c’è pericolo c’è anche ciò che ci salva”, come diceva Hölderlin. È un pericolo in sé, è spazio senza direzioni e punti di riferimento ma con vie di fuga e ancore di salvezza se si è capaci e degni di trovarle, altrimenti si trova la morte o più semplicemente non si trova niente. E allora il poco che è stato scritto è cancellato, buttato nel cestino involontariamente, sparito per i motivi più disparati. Nel vuoto tutto cambia da un momento all’altro, lo spazio ed il tempo possono scivolare in un buco nero e noi con loro, senza lasciare tracce.



A questo punto rileggo il tutto e noto che tra i paragrafi ho lasciato dei vuoti, e che li lascio per dare più senso al discorso. E penso che non avrebbe senso adesso scrivere dentro quei vuoti, perché sono lì proprio per essere vuoti, per dare un ritmo. Il vuoto è silenzio da ascoltare. Una pausa tra più note musicali, una sosta tra due brani di racconto o una pagina bianca prima di un altro capitolo. E siccome il vuoto è lo spazio che mi permette di scrivere, mi sembra giusto lasciargli spazio. Pieni e vuoti dovrebbero sempre vivere in simbiosi, in un continuo scambio di favori, come nel territorio.



Scrivere lasciando vuoti mi sembra una scelta ospitale e in qualche modo etica, o almeno coerente con la scelta di continuare a scrivere e in qualche modo a costruire questo vuoto con le parole, e con il vuoto. E comunque mi sembra renda agevole la lettura. L’ho provato leggendo Bellas Mariposas, l’ultimo libro che Sergio Atzeni ha lasciato incompiuto, su Cagliari.



Cosi come mi sembra coerente cercare di scrivere nel presente istantaneo, perché il vuoto è sempre un qui ed ora, è un territorio dell’attuale. Forse la maniera più appropriata per leggere questo testo dovrebbe essere leggerlo sullo schermo e vedere apparire le parole una alla volta, come lo sto leggendo io adesso mentre sto scrivendo.



I vuoti danno da pensare.



E se continuo a scrivere sul vuoto, o meglio sui vuoti del territorio, è perché ci penso molto e li frequento sempre più spesso. Il vuoto è infinita risorsa da attraversare, offre possibilità inaspettate, si concede a proiezioni utopiche, stimola domande inattese e inimmaginabili. Ci sono vuoti di memoria, vuoti legislativi e vuoti urbani che portano con sé la potenzialità di una scappatoia, che offrono la possibilità di reinventare un senso, di ritrovare significati andati persi e di crearne di nuovi.



I vuoti sono un continuo emergere di domande senza risposta. Domande che nessuno cerca eppure sono lì, abbandonate tra gli scarti, in attesa che qualcuno le veda, o ci inciampi sopra. Parlo di quei vuoti che sono intorno a noi e che nessuno vede. Di quelle amnesie urbane che ci sono nelle nostre mappe mentali. Zone che attraversiamo abitualmente in macchina in pochi minuti e che non si fissano nella nostra memoria perché lei non le riconosce, non le classifica come parti di una idea di città. Sinapsi ancora da costruire. Se si procede lenti, a piedi, e non sull’asfalto, si scoprono luoghi magnifici in cui la natura è incredibilmente selvaggia ma anche discariche culturali in cui la città ripone i problemi che non sa affrontare, cerca di non vederli e non li fa mostrare: gli immigrati, le baracche, i campi rom.



I campi nomadi mi sembrano in questo momento il vuoto più vuoto dei vuoti. Un abisso di profondità nel mare dei vuoti. E forse non è un caso che i nomadi siano da sempre stati gli abitanti dei vuoti. Ma quando si dice questo si pensa a carovane nei deserti. Oggi chi è nomade tra noi è un rom, la più grande minoranza culturale europea, il popolo che da cinque secoli parla la sua lingua in tutta Europa. La sola gente che non ha mai dichiarato guerra ad altre genti e che non ha mai cercato una terra promessa perché l’intera terra è la sua patria. Quei campi sono oggi l’unico vuoto rimasto dove possono abitare, o meglio dove noi li concentriamo. Vuoti in cui entrano solo i servizi sociali e le forze dell’ordine, la televisione quando c’è una tragedia. Non ci entra mai nessuno.



Nei vuoti bisogna entrarci.



Compito degli artisti e in generale dell’intellettuale è quello di spostare continuamente il senso delle cose, di andare a caccia di vuoti, e loro malgrado anche di riempirli. Quando una zona ha raggiunto una densità di significati, si cercano altre zone da interrogare, territori dove posare lo sguardo, da svelare, dove attrarre altri sguardi. E poi di nuovo guardare altrove, dove gli altri non guardano, per rendere visibile l’invisibile, per rendere pieno il vuoto.



Perché il vuoto non è mai vuoto. Il vuoto è pieno di cose per chi le sa cercare. Per chi è disponibile a trovarle, ad ascoltare. Per chi è capace ad accedervi. E non si tratta solo di barriere fisiche da oltrepassare. Entrare in una fabbrica abbandonata è facile. Entrare in un campo nomade è meno facile. Nel primo caso ci sono muri da scavalcare, recinzioni da aprire. Nel secondo non ci sono muri e le porte sono aperte. Le barriere sono immateriali, culturali. Muri a volte solo immaginari, creati da immagini, prodotte dai media, dalla incultura o dal pregiudizio.



Nel vuoto bisogna entrare sgombri, privi di bagagli e di attese. Lasciare sul ciglio ogni certezza, ogni pregiudizio, sospendere ogni giudizio. Bisogna entrare da nomadi, con poche cose di valore, leggeri per il viaggio, pronti ad accogliere quello che accade.



E una volta entrati nel vuoto si deve sapere come procedere, come camminare.



Paolo Nicoletti Altimari dice che “nel computer non esiste il vuoto, niente viene cancellato, tutto lascia tracce, ogni dato può essere ritrovato più o meno facilmente. La pagina vuota non è vuota, è impulsi elettronici, silicio composto in sistema binario: linguaggio."



Come far parlare il vuoto senza linguaggio? Come far sentire l’infinito della sua immaterialità e la sua disponibilità totale ad essere scritto, senza volerlo scrivere? Come farlo cantare senza riempirlo di suoni? Come scrivere quella pausa senza farla essere solo stacco tra un prima e un dopo ma una pausa totale? Molti pittori hanno risposto dipingendo monocromi. John Cage ha suonato musica utilizzando solo pause. Abdellah Karroum ha scritto un libro di sole pagine vuote. Emmanuelle Hyun Tan Loan ha danzato completamente nuda in un teatro completamente buio e Lisa Nelson ha danzato in un teatro illuminato ma ha chiesto al pubblico di chiudere gli occhi per tutto lo spettacolo, anche lei aveva gli occhi chiusi.



All’IRCAM di Parigi c’è la stanza del silenzio assoluto, è talmente fonoassorbente che si può percepire il suono del proprio battito del cuore. Un vuoto che esiste solo quando noi vi siamo dentro e che si fa sentire solo quando vi entra il nostro corpo. La nostra presenza permette a quel vuoto di esistere o è il tradimento di quel vuoto?

Che suono c’è in quella stanza quando non c’è nessuno?
Il nostro corpo fa parlare il vuoto o il vuoto fa parlare il corpo?



Come progettare il nulla.



Come rispettare il loro essere vuoti, pause, assenze. Come non omologarli ai pieni? Lasciarli in stato di abbandono è forse l’unica forma di progetto possibile. È la sfida e il rischio da correre, il limite a cui tendere.



Una volta compreso il senso e riconosciuti i valori estetici ed esistenziali di questi spazi, come porsi il tema della loro trasformazione. Come progettare il nulla senza essere nichilisti.



Quotidianamente abbiamo a che fare con i vuoti domestici, vuoti di bottiglia, barattoli vuoti che hanno recentemente assunto un valore economico importante. Restituendo il vuoto si viene rimborsati. Il vuoto può essere riciclato. Il vuoto è scarto ma ha un valore, anche economico.

Sul vuoto ci sono interessi, movimenti speculativi, compravendite. A sua insaputa.


Il vuoto è nomade. Si sposta di continuo. Non appena la cultura cerca di riempirlo il vuoto sfugge, va a nascondersi in un nuovo anfratto. La soffitta, la cantina. Il campo incolto. Il terreno vago.



Fenomenologia del vuoto, stalker.



Interpretare, mappare, costruire una geografia del vuoto, attribuire i nomi.



Horror vacui, o forse error vacui o meglio errar vago, girovagare caoticamente, vagare nello spazio inventando i luoghi. Camminare. Lasciare tracce di parole, sentieri di pensieri.



Scarti finali.



Consapevolezza poetica e responsabilità etica.



Il progetto non può sottrarsi ad un proprio radicale ripensamento di fronte ai vuoti che emergono ogni giorno. Non può non andare a posizionare il suo punto di vista anche dalla parte del vuoto.

Forse perché si presta ad un uso. A tanti usi. Tutti possibili.


Lasciare zone di incomprensione, di disturbo, di disagio, di malinteso, di non finito. Perché restino a disposizione di nuove culture nel futuro. Prendersene carico, abbandonare con affetto.



(pagina vuota)




Visioni Urbane


Intervista a Carmen Laurino e Massimo Lovisco. Artisti visivi, dal 2009 lavorano insieme come EllePLUSElle. Lovisco è co-fondatore dell'associazione no profit Amnesiac Arts (Potenza)


1) Cominceremo partendo da una considerazione di massima, vale a dire il fatto che la Basilicata a tutt'oggi sembra mancare dalla mappa dell'arte contemporanea italiana. Come vivono secondo voi questo "vuoto" gli artisti lucani? In che modo viene percepito?


La Basilicata artisticamente rappresenta per certi versi un’anomalia italiana: nonostante la presenza sul territorio di proposte e progetti interessanti, la regione rimane pressoché scollegata da qualsiasi circuito di rilievo. Come è stato detto, rappresenta un buco. Persino le realtà diffuse un po’ ovunque, come il circuito GAi, esistono ufficialmente solo sulla carta; le poche gallerie che ci sono hanno molte difficoltà proprio perché sono fuori dalla rete che conta e raramente sono interessate ad una ricerca aggiornata.

Mancano inviati di testate giornalistiche di rilievo e le proposte migliori vengono dal no profit e da strutture che si sorreggono sulla passione. Tutto questo si traduce in un’estrema difficoltà per gli artisti e gli operatori culturali ad esistere al di là dei confini regionali. Si è assistito a mostre e progetti molto interessanti, proposte artistiche di rilievo che non hanno avuto nessun seguito.


La Basilicata produce artisti perennemente emergenti. Come ci è capitato di dire altrove, concettualmente la nostra regione rappresenta un’enorme periferia senza un centro. Negli ultimi tempi si accenna ad un cambiamento; forse anche grazie alle tecnologie e alla rete internet, gli artisti lucani stanno acquisendo una maggiore consapevolezza delle proprie potenzialità: sta nascendo una scena artistica consapevole e unita, c’è maggior fermento anche dal punto di vista curatoriale. Sono nate collaborazioni con le realtà di Puglia e Calabria e soprattutto anche le istituzioni stanno puntando sulla cultura.

Non è un caso che ultimamente la Basilicata abbia avuto una sua rappresentanza alla Bjcem (la Biennale dei Giovani Artisti dell’Europa e del Mediterraneo), il mensile "Arte" abbia fatto una ricognizione (la prima di una testata specializzata) sulla scena lucana, la Regione Basilicata abbia messo in piedi Visioni Urbane, un progetto ambizioso legato alla creatività giovanile, e che alcuni privati abbiano provato a fare una fiera dell’arte anche qui. Ma c’è bisogno di accelerare e consolidare questo processo per far sì che non sia un momento d’interesse passeggero.


2) Visioni Urbane nasce appunto nel 2009 quale piattaforma della Regione Basilicata nel tentativo di colmare il vuoto di cui sopra, innescando processi sia legati ad una progettualità materiale ("i cantieri edili") che ad una progettualità delle conoscenze ("i cantieri delle idee"), potenziando in questo modo diverse competenze professionali. Ci spiegate qualcosa in più sul funzionamento di questo progetto?



Bisogna dire che da qualche anno la Regione Basilicata sta puntando molto sulla cultura e in particolare sull’arte contemporanea, investendo coraggiosamente cospicui fondi. Il 2009 è stato un anno d’oro per gli amanti dell’arte. E’stato inaugurato "Arte Pollino", un progetto che ha visto sul Pollino installazioni site specific di Anish Kapoor, Carsten Höller e Giuseppe Penone. Negli stessi giorni dell’inaugurazione a Potenza si svolgeva "Arte in Transito" (manifestazione di cui speriamo ci sia un seguito) che ha visto, tra gli altri, la partecipazione di Studio Azzurro, Daniel Buren, Bianco Valente, Michele Iodice, Marcello Maloberti, Franco Purini etc. Insomma durante l’estate 2009 la Basilicata è stata una piccola capitale dell’arte internazionale e si è assistito a scene quasi surreali, come Vicente Todolì (direttore della Tate Modern di Londra) a spasso per Potenza a visitare esposizioni di giovani artisti.



Nei piani di rilancio della creatività giovanile ad opera della Regione Basilicata, Visioni Urbane rappresenta un processo ambizioso e innovativo. In poche parole sono state interpellate in riunioni plenarie, iniziate nel 2007, tutte le realtà associative regionali di rilievo per comprendere le esigenze della scena creativa e capire come la Regione poteva intervenire attivamente. Il processo si è concluso nel 2010 con la creazione di cinque grandi spazi attrezzati per fare attività multidisciplinari che andranno a bando per la gestione ma che comunque saranno utilizzati dalle associazioni che hanno seguito il percorso di Visioni Urbane. Altra esigenza che è emersa dalle lunghe riunioni è stata quella di fare rete sia tra le varie associazioni regionali sia con realtà extraregionali. A questo scopo saranno previsti degli interventi che possano mettere tali centri, e le attività che essi ospiteranno, in un circuito più ampio (si parla di partenariati con prestigiose fondazioni), il quale possa godere di un appoggio istituzionale da parte della Regione Basilicata. Quella di "fare rete" è un’esigenza molto sentita, come dicevamo prima. Infatti, al di là di come andrà a finire tutto il processo di Visioni Urbane, un risultato per noi è stato già raggiunto: far incontrare periodicamente tutte le più valide realtà regionali nel campo dell’associazionismo culturale ha dato adito a delle spontanee collaborazioni tra i vari protagonisti. 



3) La vostra associazione no profit Amnesiac Arts nasce nel 2002 a Potenza. Da quale necessità e in che direzione avete lavorato nei primi anni?



Amnesiac Arts nasce nel 2002 dall’idea di tre studenti universitari fuori sede che volevano portare a Potenza un'attitudine del fare arte acquisita nelle città di residenza (Bologna e Milano). L’idea era quella di "fare rete" con un circuito più ampio dando la possibilità agli artisti del posto di sperimentare, confrontarsi e dialogare con realtà anche internazionali. Oltre a grandi eventi all’interno di manifestazioni (come "Future Visioni" al Museo Provinciale di Potenza o la cura di loopermagazine) gestivamo uno spazio in un appartamento che era una sorta di laboratorio dove si creava. La cosa interessante è che nel nostro spazio gli artisti proponevano qualcosa di “diverso”, quel progetto che casomai avevano in mente da tempo ma che sentivano di non poter proporre altrove. 

La nostra ricerca era centrata su solide basi curatoriali che non lasciavano niente al caso immaginando una mostra come un’installazione in sé, costruita a partire dalle opere degli artisti invitati. Ad esempio per "Italia-Russia 6-6", una rassegna di video arte italo-russa, abbiamo ricreato due spogliatoi di calcio in cui, tra accappatoi e palloni, c’era il monitor sul quale venivano trasmessi i video. Oppure per "Aural Sculpture" abbiamo ricreato un finto negozio di cd… tutte proposte che però sono solo nella memoria di chi le ha vissute e in qualche foto. 


4) Ci sembra di capire che la piattaforma di Visioni Urbane avrà termine al momento in cui le associazioni del territorio saranno allocate nelle cinque sedi messe a disposizione dalla Regione. Gettando uno sguardo più in là, cosa succederà alle singole realtà ed al network così costituito? Come si sosterranno finanziariamente?



Questo è ovviamente il punto critico di tutto il progetto. Di fatto questi spazi prevedono dei costi gestionali importanti, difficili da sopportare per chi ha un approccio no profit alla cultura. E’ una sfida che richiede di acquisire delle competenze gestionali non di poco conto. Il futuro, fra l’altro imminente, prevede o una cordata di associazioni, che si costituiranno in società prendendo in gestione gli spazi, o l’intervento di un privato illuminato che voglia scommettere in una vera e propria azienda culturale.

Il fatto certo è che è stato preso un accordo tra la Regione e il gruppo di Visioni Urbane, il quale prevede l’utilizzo delle strutture da parte dei creativi coinvolti per determinate iniziative. In ogni caso pensiamo che la Regione accompagnerà coloro i quali decideranno di prendere in gestione gli spazi, condividendo con gli artisti il concetto e la mission di Visioni Urbane.




Link utili






Eleonora Farina è laureata all'Università "La Sapienza" di Roma in storia dell'arte contemporanea con una tesi sulla Kunsthalle Portikus di Francoforte sul Meno (diretta dal Prof. Daniel Birnbaum). Dopo un anno di lavoro a Bucarest presso il dipartimento curatoriale del Museo Nazionale d'Arte Contemporanea, al momento vive a Berlino dove ha iniziato un dottorato di ricerca presso la "Freie Universität" (Prof. Gregor Stemmrich) sull'attuale situazione dell'arte romena. E' su questa tematica che ha inoltre realizzato diversi progetti curatoriali, ha partecipato a lecture e ha scritto articoli specialistici. Collabora regolarmente con UnDo.Net e con la rivista "Arte e Critica".



Michela Gulia è laureata all'Università "La Sapienza" di Roma in storia dell'arte contemporanea, con una tesi sugli spazi artistici indipendenti nell'Italia degli anni '60 e '70. Dopo aver lavorato presso la Fondazione Baruchello (Roma), da gennaio del 2008 collabora con UnDo.Net ad un'indagine sulle realtà non profit in Italia, attraverso una serie di interviste ai suoi protagonisti. Nel 2009 ha fondato con Gabriella Arrigoni la piattaforma curatoriale Harpa Projects.


Federico Faeta, Ritratto di artista materano, stampa digitale, 2010

Dario Carmentano, Senza titolo, stampa a caldo su tessuto, 2008

Angelo Riviello, Location Europa-Made in Italy, fotografia digitale su tela plastificata, 2008-2011

Bruno Di Lecce, performance, Matera 2010. Foto di Federico Faeta 2

Bruno Di Lecce, performance, Matera 2010. Foto di Federico Faeta 2

Gerardo Fornataro, The Game, stampa digitale, 2008

Luca Acito, Surplusneedy, performance, Brussels, 2008

Carlo Fatigoni e Morena Tamborrino, amarte, live performance a-v, 2010

Dino Viani, still da La Madonna del monte 16mm, b-n, Stimmungfilm 2006

Pino Lauria, Mea maxima culpa, stampa lambda, 2010

Morena Tamborrino (vocal performer), meno966, Live set di improvvisazione elettroacustic con Alessandro Petrolati e Carlo Fatigoni, 2009

Un momento della residenza, foto di Angelo Riviello

Un momento della residenza, foto di Dario Carmentano

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