mercoledì 4 luglio 2018

Amarcord 8 - Incontri, Ricordi, Euforie, Melanconie di Giancarlo Politi

Amarcord 8
Incontri, Ricordi, Euforie, Melanconie
di Giancarlo Politi
giancarlo@flashartonline.com


Guglielmo Achille Cavellini con Andy Warhol (1974)
Guglielmo Achille Cavellini, l’uomo che mi cambiò la vita
Un giorno, a Roma, mentre ero al lavoro a La Fiera Letteraria e stavo discutendo con il caporedattore, Pietro Cimatti, mi pare sui lirici greci di Salvatore Quasimodo, su cui lui era molto critico ed io entusiasta, mi arriva una telefonata da Brescia.
“Sono Guglielmo Achille Cavellini, il famoso collezionista,” mi dice l’interlocutore. “Ah, sì,” risposi io sorpreso, “mi dica.” “Vorrei invitarla qui a Brescia per conoscerla e mostrarle la mia collezione.” “Bene,” risposi io, “ma non ho sufficienti economie per affrontare il viaggio e soggiorno.”
(All’epoca al La Fiera Letteraria percepivo cinquantamila lire in nero al mese: venticinque euro di oggi, ma il valore di acquisto di cinquantamila era molto, molto superiore ai venticinque euro di oggi: io con quella cifra riuscivo a mantenermi. Diecimila al mese per una stanza condivisa, in via dei Serpenti, in pieno centro, e il resto per il tram e poi panini e pizze e spesso invitato a cena da amici.)
“Non si preoccupi,” rispose Cavellini con voce squillante e invitante dall’altro capo del filo. “Le offro io il viaggio in prima classe e un buon albergo.” “Bene, quando posso arrivare?” “Quando vuole lei, anche domani. Io sono qui. E il mio ufficio è accanto alla stazione. Quando arriva vedrà sulla sinistra un grande complesso, Magazzini 33, lei entra e chieda di me.”
All’epoca i viaggi in prima classe rappresentavano una risorsa per me. Anche La Biennale di Venezia (bei tempi!) mi offriva il viaggio in prima classe e poi una stanza all’Hotel Bauer per tre notti. Credo di non aver mai goduto la Biennale come a quei tempi, anche perché avvenivano cose strabilianti, come l’arrivo della Pop Art nel 1964 (e cene con Leo Castelli insieme a Jasper Johns, Andy Warhol, Robert Rauschenberg, Roy Lichtenstein, insieme alle eminenze grigie della Biennale e della città, tra cui Luigi Marchiori, Umbro Apollonio, Emilio Vedova, Bepi Santomaso e Luigi Scarpa). O la rivolta degli artisti nel 1968, che non capii bene a cosa si rivoltavano. Di quell’edizione rammento solo le accesissime discussioni tra Arturo Schwarz e Pino Pascali che quasi vennero alle mani; e poi tutti i quadri degli artisti italiani rivoltati contro la parete, con grande rammarico della maggior parte di loro che avevano aspettato una vita per partecipare alla Biennale. Nessuno, però, poteva ignorare il diktat politico che imponeva loro il ritiro delle opere dalla Biennale. Fu poi scelta l’opzione soft di girare i quadri verso la parete, esponendo al pubblico solo il retro con la firma e la data. Ma il giorno dopo, quasi di soppiatto, tutti gli artisti rimisero i quadri nel verso giusto, ma negando di averlo fatto.
Queste grandi manifestazioni – Biennale di Venezia, Biennale di San Marino, Premio Lissone, Premio Marzotto e qualche altro – usavano invitare alcuni critici (pochi in realtà, solo i titolari di testate importanti) con un biglietto di prima classe. Capirete voi che per me era una manna: io viaggiavo benissimo in terza classe e rimborsato per la prima. Talvolta la differenza rappresentava per me quasi un secondo stipendio. Cavellini, che mi chiamava da Brescia invitandomi in prima classe, mi fece venire alla mente la Biennale di Venezia e le sue opulenze, ormai ricordo sbiadito.

Cavellini e la Mail Art


Arrivai a Brescia in mattinata (avevo viaggiato lietamente sui sedili di legno tutta la notte) e appena uscito dalla stazione vidi questo imponente edificio dei Magazzini 33, dei fratelli Cavellini.

Quando la segretaria mi annunciò, Achille si precipitò da me e mi portò nel suo ufficio, pieno di scatole, di grandi buste con molti francobolli, ritagli di giornali, collages, cartoline con timbri e scritte strane: non era un ufficio quello ma il laboratorio della Mail Art, di cui GAC (Guglielmo Achille Cavellini) stava diventando un protagonista.
Avvantaggiato dal fatto che fosse benestante (o ricco?) rispetto agli altri esponenti della Mail Art, che a fatica riuscivano a comperare un francobollo, Cavellini invece riusciva a spedire migliaia di opere di Mail Art ogni mese, facendosi così conoscere ovunque. Allora capii che non mi aveva invitato per ammirare la sua collezione (per l’epoca notevolissima, forse la prime in Italia sull’arte contemporanea), ma per mostrarmi e parlarmi del suo lavoro di performer e mail artista.
La villetta dove abitava, custodita con grande cura dalla moglie, Lisetta, si ergeva su tre piani, ognuno dei quali dedicato a più artisti o a una tendenza. Per me vedere la Pop Art inglese o la grande astrazione europea (Fautrier, Hartung, Soulages) o alcuni grandi italiani (Fontana, Vedova, Burri, Santomaso, Afro) fu un colpo allo stomaco. Molto di più delle buste con i grandi francobolli (tra cui il suo autoritratto in forma di francobollo) della mail art di GAC.
Ma Cavellini era uomo affabilissimo, colto e informato – ma soprattutto curioso. Volle sapere della situazione romana, dandomi appuntamento per uno studio visit prossimo. Il che avvenne quasi subito: mi scrisse una lettera chiedendomi di fissare appuntamenti con Kounellis, Pascali e Schifano. Kounellis ci ricevette a casa sua con la moglie dell’epoca, Efi, collaboratrice e vestale dell’artista in quegli anni, a cui dedicava la vita malgrado fosse stata compagna di studi all’accademia di Roma. (Si diceva anche che Efi avesse rinunciato alla sua carriera di artista per assistere Kounellis.) Cavellini voleva comperare alcune tele di Jannis il quale, in un primo tempo, si negava, dicendo di non aveva nulla; ma quando poi vide un malloppo di fogli da centomila nelle mani di Cavellini, da sotto il letto Efi tirò fuori tre grandi tele di oltre due metri, arrotolate. Le famose tele con frecce e lettere dell’alfabeto. Efi chiedeva un milione per ogni tela. A me sembrò una cifra da capogiro, per me che guadagnavo cinquantamila al mese. Dopo lunghe discussioni e performance di Cavellini che saltava tra una tela e l’altra, si accordarono per ottocentomila lire cadauna. Cavellini arrotolò le tele, se le mise sotto braccio e uscimmo. Capii allora che era abituato a queste pantomime con gli artisti senza perdere tempo in spedizioni o altro. Le portò in albergo e le avrebbe condotte con sé nel vagone letto. Con Pino Pascali invece non andò bene: Pino aveva solo un cubo di terra, di un metro per un metro, difficile per Cavellini da portare in vagone letto. Si accordarono per altro incontro, che poi sfumò per la morte di Pino. Lo studio di Mario Schifano era vuoto: c’era lui, con i soliti jeans sporchi di colore e sdruciti che tanto eccitavano le principesse di passaggio, ma delusero me e Cavellini – che non comperò nulla. Arrivederci Roma.

Protagonista mondiale


La Mail Art (o Arte Postale) a quei tempi imperversava: ogni artista o presunto tale si divertiva ad inviare ad amici e colleghi cartoline o buste diversamente elaborate, dipinte, scritte. E sopra francobolli a gogò. Il movimento era stato fondato da Ray Johnson e la sua New York Correspondance School; anche se il marchigiano Ivo Pannaggi, già nel 1920, aveva proposto molti collage postali di carattere futurista. Bellissimi e scomparsi. Lui me li mostrò nel suo studio a Macerata, dove era appena tornato dalla Finlandia.

GAC divenne subito un protagonista mondiale, perché ogni giorno portava in posta tonnellate di buste, pacchetti, cartoline. E nessuno aveva la sua potenza di fuoco.
Fu lui che a Brescia mi presentò il collezionista imprenditore Antonio Spada che cambiò la mia vita. In quei mesi Brescia divenne una città calda per l’arte contemporanea: con l’aiuto di un bravissimo e sensibile artista locale, Valentino Zini, Pio Monti (venuto al mio seguito) aprì una galleria a Brescia, Acme-Artestudio, dove ricordo presentò una bellissima mostra di Fabio Mauri, ma anche tutta la genealogia degli artisti cinetici – in primis Getulio Alviani, suo mentore e amico.
Con Antonio Spada, a cui su richiesta davo qualche suggerimento, diventammo amici e mi propose di trasferire la redazione di Flash Art da Roma (ormai invivibile per me) a Brescia, in un suo spazio, dove abitavo e lavoravo. Giorni bellissimi, anche perché spesso ero invitato a pranzo da Spada e mentre lui mangiava un filetto scondito, io facevo il pieno per i giorni successivi. Passava spesso a trovarmi anche Massimo Minini, che allora era rappresentante di commercio e girava l’Europa cercando di piazzare alcuni prodotti delle aziende bresciane.

Io, Cavellini e Mario Verdone


Un’estate Achille Cavellini invitò me e mia moglie Helena in una sorta viaggio di nozze, ospitandoci per alcuni giorni a Taormina. Una vacanza bellissima ed esclusiva in un hotel sul mare, dove abbiamo conosciuto, sempre tramite GAC, Mario Verdone, il papà di Carlo. Mario Verdone era un uomo coltissimo, raffinato e curioso, grande studioso del cinema, in particolare quello futurista. Mario poi collaborò, con articoli sul cinema aFlash Art. A tavola, durante le cene, Mario ci parlava spesso dei suoi tre figli, Carlo, Luca e Silvia, tutti appassionati di cinema e secondo lui, futuri cineasti. Lui era docente (o direttore?) al Centro Sperimentale di Cinematografia e ci raccontava che era molto amico di Alberto Sordi e di numerosi registi e attori. Il nostro rapporto durò forse un anno o due, poi come sempre accade, ognuno per la sua strada. Ma di Mario Verdone conservo un bellissimo ricordo, di persona affabile, colta e disponibile. Vista la circostanza, forse stava scrivendo un testo su Cavellini.

Nel 1975, andai con Cavellini (sempre suo ospite) a Varsavia, in occasione di una sua mostra e performance alla galleria Współczesna (sono d’accordo, è impronunciabile), allora punto di riferimento della Body Art in Polonia e in Europa. Ci accompagnava il fotografo Ken Damy per documentare l’evento. Ricordo che il successo fu caloroso: GAC trattato come una star, con richiesta di autografi e quasi portato in trionfo.
Io non ho mai capito se GAC pensava di essere un genio o faceva finta. Ma ne recitava molto bene il ruolo. All’epoca un famoso giornalista tedesco, Willi Bongard, pubblicava ogni anno sul famoso mensile Das Kapital una classifica dei migliori cento artisti del mondo. Poi scoprii che molte gallerie pagando trentamila marchi, inserivano i loro artisti. Me lo confermò il gallerista di Colonia di Alviani, Winfried Reckermann, che era riuscito a inserire Getulio al 99mo posto. Questa graduatoria pare avesse il suo peso nel mercato tedesco. Al primo posto sempre Warhol e Beuys, un anno l’uno, il successivo l’altro; poi Christo, Mack, Fontana, Manzoni ecc. Quando mostrai questa graduatoria a Cavellini, lui ne restò affascinato e con un colpo di genio, fece ristampare diecimila copie della pagina inserendo il suo nome al quarto posto, invece di Piero Manzoni. Lui spedì a tutto il mondo questa brochure, al punto che Gillo Dorfles, prendendola per autentica (come quasi tutti del resto), la pubblicò integralmente nel suo libro Ultime tendenze nell’arte di oggi. Chi possedesse quell’edizione potrà confermare. Io ce l’ho ancora da qualche parte. E la pagina restò per alcuni anni; poi qualcuno avvertì Dorfles che in una edizione successiva la tolse.

Caro Achille, vorrei portarti una rosa rossa


Cavellini scriveva e diceva a tutti di essere un genio. Io credo che ad un certo momento ne fosse convinto. Comunque per la sua cosiddetta “storicizzazione” fece cose incredibili, dai francobolli alle false mostre nei musei, alle false biografie nelle Enciclopedie, persino nella Treccani, credo, riuscendo ad avere una credibilità e visibilità inconsueta. E profondendo tantissime energie e anche un po’ di denaro, divenne molto popolare in molti paesi, specialmente in Giappone, dove si recò, invitato, almeno un paio di volte, per mostre in gallerie e musei.

Non basta un Amarcord per descrivere una vita così intensa e talmente e felicemente dedicata all’arte, all’arte sua ma anche a quella degli altri, che occorrerebbe veramente un’enciclopedia. I suoi racconti sugli artisti francesi, specialmente Fautrier, di cui fu frequentatore e amico mi appassionavano. Mi diceva che acquistava da Fautrier pacchi di opere su carta a diecimila lire l’una (oggi cinque euro, ma diciamo che il valore corrispondente sarebbe cento euro). Tornando poi a Milano con il solito vagone letto e con rotoli di opere di Fautrier, Hartung, Soulages, Vieira da Silva. Non ho mai conosciuto persona così appassionata d’arte nella mia vita.
Poi, improvvisamente, il tracollo. La sua azienda, i famosi Magazzini 33, fallirono, lui dovette vendere la sua bellissima villetta e ritirarsi in un appartamento in condominio. Comunque era sempre allegro e di buonumore, anche quando perse la sua Lisetta; mi telefonò e mi disse: “Lisetta non ce l’ha fatta. Ma la vita continua.”
Invece non continuò per molto. Nel 1990, a settantasei anni ci lasciò. Credo anche per le frustrazioni e delusioni, lui sempre così vitale e allegro e propositivo, con le sue BMW sempre nuove. E io mi rimprovero ancora oggi di non essergli stato vicino negli ultimi tempi. Preso e divorato dal lavoro e dal successo nel lavoro di quegli anni, trascurai amici come GAC a cui devo molto, forse anche una svolta nella mia vita. Ogni tanto mi chiedo: e se non avessi incontrato Achille Cavellini, Antonio Spada, Achille Mauri, Antonio Dias, come sarebbe stata la mia vita? È una domanda a cui non posso dare risposta, ma in cuor mio ogni tanto penso a loro con commozione e riconoscenza. A Cavellini vorrei portare presto una rosa rossa (a lui piacerebbe) sulla sua tomba a Brescia.


Contributi

Giorgio Colombo
Caro Giancarlo,
Si dice che una fotografia vale più di mille parole, ma i tuoi ricordi non possono essere sostituiti dalle fotografie, salvo accompagnarli quando possibile. Continua a raccontare.
Un caro saluto,
Giorgio

Caro Giorgio, alla nostra età affiorano ricordi impensati, lasciati fuori dalla porta degli anni giovani che tutto spazzano via. Ma la memoria è un animale strano. È un gatto dalle sette vite. Peccato accorgersene solo ora. Tu invece non hai problemi. La tua Leica è inossidabile.

Gemma Testa
Caro Giancarlo,
l’ultima volta che ci siamo sentiti è stato in occasione di una tua intervista che mi hai fatto nei primi anni duemila, in cui mi hai lusingato chiedendomi di scrivere per Flash Art. Sono passati molti anni ma non ho mai smesso di seguirti con grande interesse. Sto leggendo con curiosità la tua rubrica “Amarcord” e, in particolare, ho recentemente letto il tuo ultimo ricordo su Bruno Bischofberger. Da sempre mi appassiona molto e mi incuriosisce la “vita degli altri”, ovviamente dei grandi personaggi, e i tuoi scritti sono davvero coinvolgenti anche perché mi riportano alla memoria dei ricordi personali, tempi vissuti in giro per il mondo con Armando. Qualora decidessi di raccoglierli in una pubblicazione sarei sicuramente una delle tue prime lettrici!
Un caro saluto a te, a Helena e Gea,
Gemma

Cara Gemma, se riesco a strizzare la mia memoria con tutti i ricordi necessari mi piacerebbe scrivere un “Amarcord” su un personaggio picaresco come Armando Testa. Voglio rifletterci.

Paolo Buggiani e la Street Art
Caro Giancarlo,
leggo con piacere e nostalgia i tuoi “Amarcord” anche se le mie presenze a singhiozzo si alternavano tra i ventiquattro anni passati a New York e il resto tra Roma e Milano.
All’inizio degli anni Ottanta, a New York, con Enrico Baj eri andato alla Rivington School, nel Lower East Side, uno dei punti bollenti della nascente Street Art con Fashion Moda nel South Bronx e la banchina abbandonata, il Pier 34 sul fiume Hudson. Il tuo intuito ti aveva avvisato che era l’inizio di un importante movimento che sarebbe un giorno diventato mondiale. Ma quando hai incontrato Helena che aveva collezionato un certo numero di pubblicità dalla miriade di mini gallerie che in quel momento spuntavano nell’East Village decidesti di cambiare direzione al timone. Sui muri di Soho c'era un manifesto di Jenny Holzer che diceva: “Questa è arte che si suppone non debba esistere, è un’arte messa dove tutti possano vederla, è un'arte sui problemi seri, un’arte talmente bella per dimostrare quanto le cose potrebbero essere meravigliose”.
Con tutto il rispetto per il grande lavoro che hai svolto,
Paolo Buggiani

La Street Art? Un’arte per chi non ha voce?
Caro Paolo, grazie per i ricordi belli di New York. Ma sei tu che sbagli. Nessuno mi ha fatto cambiare strada, tanto meno Helena che non era addetta a raccogliere la pubblicità ma a dirigere la rivista, ad intervistare artisti e critici, a parlare con Rosalind Kraus, Douglas Crimp, RoseLee Goldberg, Paul Taylor, Carlo McCormick, Peter Schejdal, ecc. O con Peter Halley, Jeff Koons, Cindy Sherman, Sherrie Levine, Robert Longo, David Salle, Troy Brauntuch, ecc. All’epoca, data la visibilità di Flash Art e il suo consenso tra gli artisti e galleristi, la pubblicità arrivava a tonnellate senza nemmeno cercarla. E spesso la si rifiutava.
Io ho sempre creduto e anche scritto molti anni fa che la Street Art deve restare nelle strade, sui muri, nelle periferie abbandonate, nei centri sociali o di raccolta degli emigrati, parlare alla gente e portare messaggi a chi ne ha bisogno. Portare la Street Art nei musei o nelle gallerie o nelle riviste d’arte significherebbe snaturarla, non averla capita. Come portare una tigre in uno zoo. E se fossi in te, non sarei così ottimista sulla affermazione mondiale della Street Art. Le rare mostre che gallerie o musei hanno organizzato sembravano degli obitori. Perché la Street Art ha bisogno di spazio, di luce, di aria, di auto, treni e metropolitane che la veicolino da una città all’altra, di gente che vi cammina sopra, che la sporchi, che la usi. E ricordati che di Banksy ce n’è solo uno, gli altri son nessuno.

Letizia Cariello
L’ho letto tutto. In un momento storico in cui c’è troppo di tutto, ho imparato qualcosa.

Marco Nereo Rotelli
Caro Giancarlo,
Bello il tuo viaggio nel tempo che rianima il vissuto e ravviva lo spirito.
Un caro saluto,
Marco

Grazie Marco, per quanto farai a Cancelli, sulle montagne dell’Umbria. Sono con voi anche se chiuso nella mia “area condizionata” qui a Milano. E Maurizio Cancelli meriterebbe molto di più di ciò che ha ottenuto nella vita. Come uomo e come artista. Ma né le istituzioni locali né le eminenze grigie di Foligno gli sono state amiche. Per incompetenza e gelosia.

Mauro Corbani
Caro Giancarlo,
che spasso i tuoi “Amarcord” che ben descrivi. Vere kikke per chi ancora non le conosce…
Un abbraccio,
Mauro.

Flavia Montecchi
Caro Giancarlo,
È sempre bello leggerla. Quando arrivano questi “Amarcord”, so che ci sarà un piacevole momento della giornata in cui li leggerò. Grazie per questo prezioso contributo alla storiografia dell’arte!
Alla prossima settimana!

Italo Ianfredini
Caro Politi,
Anni fa, Tonino Guerra su la Repubblica narrava di un episodio vissuto da ragazzo. Mentre passeggiava con il nonno si accorse che di tanto in tanto si fermava e si voltava indietro.
Tonino chiese il perché e il nonno rispose: “Per meglio andare avanti”.
Credo che i suoi “Amarcord” siano inviti a non disperdere mai la memoria in quanto non è solo “ritenzione” ma anche “restituzione”, spinta ad andare meglio avanti, crescere. Grazie nonno-ragazzo!
Un saluto,
Italo Ianfredini

Annalisa Avon
Gent.mo,
Devo averLa incrociata tanti anni fa nella galleria di Salvatore Ala, a Milano (la sede di New York e il disastro finanziario sono venuti dopo), amavo Salvatore a quel tempo.
Gli scritti suoi sul passato mi affascinano, ci ricavo qualcosa di buono e umano, pure se non tutti gli artisti dei quali parla li trovo interessanti, a posteriori, né mi piacevano allora, avevo si e no vent’anni, ma abbastanza appassionata all’arte.
Grazie comunque,
Annalisa Avon

Lamberto Teotino
Grazie degli aggiornamenti Giancarlo.

Buona giornata,
Lamberto 


Gianmaria Fontana di Sacculmino
Duole leggere nuovamente, anche a distanza di qualche anno, parole sempre acide riferite sia a Brajo sia al Fuseum. Noto che lei non sia molto informato: niente topi; nemmeno ragnatele.

La Fondazione da me creata è linda e derattizzata ed il Fuseum, le piaccia la notizia, è in ottima salute, fa parte del Sistema Museale Regionale, ospita i visitatori e le scuole con regolarità. La Fondazione ha anche riaperto la Brajta per mostrare la parte documentale e probabilmente le è sfuggito che ha anche inaugurato la Sala Bettina come piccolo caffè culturale e la Sala degli Elleni dedicata ad eventi di cultura e mostre di giovani artisti.
Solo da poche settimane si è appunto conclusa la mostra “Brana” curata da Andrea Baffoni, con catalogo curato da Fabrizio Fabbri. Anche questa notizia le deve essere sfuggita.

Gianmaria Fontana di Sacculmino, Direttore artistico di Fuseum

Egregio signore, ho sempre avuto parole di grande stima e simpatia per il mio (ex ahimè) amico Brajo Fuso, dentista rinomato e instancabile artista sperimentatore. Visto che da Perugia non esce alcuna notizia su questo Fuseum, uno spazio molto peculiare, dedicato alle opere di Brajo, mi chiedevo semplicemente se esisteva ancora. Tutto qui. E mi pare naturale porre questa domanda a un amico del posto. Credo che compito di quest’istituzione, peraltro sostenuta forse dalla regione e certamente dai Fondi Europei, sarebbe anche quello di promuovere la propria attività, farla conoscere, anche al di fuori della regione. Ma visto che in tutti questi anni avete solo restaurato (e giustamente percepito lo stipendio) e realizzato qualche mostra per giovani artisti locali a cui non serve molto, vi chiedo cosa avete fatto delle opere di Brajo Fuso? Avete mai tentato di realizzare una sua mostra a Roma, Milano o a New York? Non era questo forse il messaggio e il desiderio lasciato da Brajo? Con un po’ di buona volontà e un minimo di competenza, sarebbe stato certamente possibile. Da qualche anno si sono aperti molti spiragli per i recuperi storici. E Brajo ci sarebbe potuto stare. Invece non è successo nulla, se non una mostra a un giovane del posto. Mi creda, ho conosciuto bene Brajo, la sua operosità, la sua splendida autoironia: invece delle mostre che state organizzando, avrebbe preferito vedere i topi circolare tra le sue opere. Ne sarebbe restato affascinato. E le sue opere ne avrebbero guadagnato in vitalità. Permettetemi dunque di giudicare il vostro lavoro per lo meno dispersivo. Se non inutile.

Galleria delle Arti
Caro Direttore,
Perché il maestro Burri le è tanto antipatico?

Antipatico Burri? Dove lo hai letto? Mi era molto simpatico proprio per quella sua asprezza contadina, per la sua determinazione nel lavoro, per il suo disprezzo dell’opera altrui, per la sua presunzione di essere il migliore. Ma non come l’altro migliore che invece è stato il peggiore. Alberto Burri è veramente una pietra miliare nella storia della pittura italiana. Lui o Fontana? Questo è il problema. Qui a Milano e forse anche all’estero si pensa a Fontana, io invece ho seri dubbi. Anche se non posso dire che la storia mi darà ragione.

Giuseppe Panzironi
Caro Giancarlo
Mi piacciono questi tuoi “Amarcord”, mi portano indietro nel tempo! Qualche avventura durante i trasporti di opere d’arte alle varie fiere le abbiamo vissute anche insieme! Grazie e comunque ci siamo ancora.

Mauro Soave Conti
Grazie Giancarlo Politi. Passano gli anni… Ma, i migliori rimangono…

Claudio Stefanini
Esperienze speranze prospettive: dalla visione di artisti che contribuiscono alla crescita positiva della gente nonostante l’ignoranza manipolata.

Andrea Tugnoli
Complimenti per il suo articolo, davvero molto interessante, descrive perfettamente l’atmosfera di quegli anni.
Distinti saluti,
Andrea Tugnoli

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