Amarcord 23
Incontri, Ricordi, Euforie, Melanconie
di Giancarlo Politi
per intervenire, controbattere o esprimere una propria opinione scrivere a
A proposito di Amarcord
Cari amici,
purtroppo non riesco a garantirvi un Amarcord settimanale e di martedì.
Chiedo un po’ di libertà di movimento. Ma ancora per qualche mese (poi i ricordi e gli incontri un giorno avranno una fine) vi garantisco che li riceverete. In futuro forse saranno sostituiti da altro. Spero altrettanto apprezzato.
Un caro saluto.
Giancarlo Politi
Dal MAXXI di Roma nuovi segnali di speranza
Eccomi di nuovo a voi, dopo un viaggio a Roma e una breve ma infida influenza. Al Maxxi ho assistito all’assegnazione dei Premio Gaetano Marzotto. Negli anni ’50 il Premio Marzotto era forse la rassegna d’arte più importante in Italia. Partecipare al famoso Premio di pittura Marzotto era già un grande traguardo, vincerlo poi era un riconoscimento quasi da Premio Nobel. Ebbene, la Fondazione Marzotto, in sintonia con i tempi, da molti anni, non assegna premi all'arte ma alle aziende (Startup) più innovative. Cari amici, questa manifestazione ha riacceso le mie speranze sul futuro del nostro paese. Cinquanta startup, scelte da una commissione super qualificata, si sono contese i 20 premi complessivi (300 mila euro per il primo e 5 milioni di euro in percorsi dei molti partner). Sono loro che ci stanno traghettando nel futuro. Sono questi i nuovi artisti? Un novello Leonardo forse non lo incontreremo nei musei d’arte ma in una startup super specializzata, sconosciute ai più ma notissime agli addetti ai lavori. E dislocate in tutto il paese, da Nord a Sud. Con questa premiazione, condotta magistralmente da Cristiano Seganfreddo, ho assistito alla più bella performance della mia vita (seconda solo a quella di Marina Abramovic alcuni anni fa al MoMa): giovani di grande talento, determinatissimi, hanno presentato in modo sintetico e chiarissimo, in un minuto, la loro attività innovativa (la maggior parte orientata verso le innovazioni in campo medico e verso la prevenzione in generale). Malgrado la situazione politica e i politici che ci governano, c’è una classe di giovani e giovanissimi imprenditori, grandi lavoratori e pionieri nel loro campo, di altissimo livello. Lo stato ci ignora ma sottotraccia c’è chi lavora per il futuro del paese e per la nostra salute. Tanto di cappello a una generazione apparentemente perduta e che invece sta salvando il paese e noi.
Una modella indossa le opere di Getulio Alviani in presenza
dell'artista, presso la sua mostra ad Artestudio, Macerata, 1970.
Courtesy Pio Monti.
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Getulio Alviani, vita di un artista da giovane
Ho l’impressione di aver conosciuto Getulio Alviani da sempre. E meglio di tanti altri. Quando lavoravo alla Fiera Letteraria nei tardi anni ‘50, a Roma, comunicavo per lettera con Getulio che mi parlava del suo lavoro e di quello dei suoi maestri e colleghi (Albers, Vasarely, Soto, Mavignier, ma soprattutto Max Bill, suo amico e mentore). Poi per la prima volta forse l’ho incontrato a Roma nel ‘62 alla mostra “Arte Programmata” organizzata da Umberto Eco nella sede della Olivetti. O forse ancora prima, nel ’61 a Zagabria, in occasione della storica mostra “Nova Tendencija” – considerata l’atto di nascita della Op art e dell’Arte cinetica – curata da Matko Meštrović direttore della Galleria Nazionale.
Da quell'incontro ci siamo visti spesso, anche se io abitavo a Roma: a Venezia con Umbro Apollonio, altro suo grande amico e sostenitore, e a Udine, dove andavo a trovarlo, o qui a Milano assieme a Paolo Scheggi e Lucio Fontana alla galleria del Naviglio, oppure a cena a casa di Scheggi. O agli incontri dalla stilista “optical” Germana Marucelli, zia di Paolo Scheggi, per cui Getulio aveva disegnato bellissimi vestiti optical, E con lui e Scheggi, Germana, una sartina proveniente da Firenze e che diventò la signora della moda milanese e non solo, aveva realizzato delle bellissime sfilate, con vestiti passati alla storia disegnati dai due artisti. In quegli anni Germana Marucelli apriva il suo salotto privato, il giovedì sera, agli intellettuali e artisti milanesi e si discuteva di arte e scienza, di letteratura e talvolta, ma più raramente, di politica. Lucio Fontana era un frequentatore abituale della Marucelli e ci illuminava con i suoi interventi su Arte e Industria. Perché io, quando di giovedì mi trovavo a Milano, partecipavo sempre. Atmosfera rilassata, da salotto milanese perbene, anche se la Marucelli non aveva perduto la sua verve toscana, discutendo di arte, scienza, letteratura, moda con un po’ di garbato gossip.
A quell’epoca Getulio viaggiava con una bellissima Porsche bianca, per cui noi tutti lo consideravamo ricco o comunque benestante. In realtà la Porsche gli era stata regalata da un suo zio ricco con cui Getulio viveva, avendo abbandonato, con grande sorpresa della madre e del padre, la sua famiglia, che però abitava di fronte. Anche la famiglia di Getulio era benestante, come mi ha raccontato la sorella Rita, perché titolare della più famosa tabaccheria di Udine, in pieno centro. Che oltre ai sali e tabacchi, era un emporio di pipe, molto in voga all’epoca. Ma Getulio preferiva le comodità e il lusso della casa di suo zio che non aveva figli e in un certo qual modo lo aveva adottato. Mentre in casa dei suoi genitori, le attenzioni erano ovviamente distribuite su tre figli.
Alviani e l'interruttore elettrico
In quegli anni Getulio, così mi raccontava, collaborava come designer con l’azienda bticino di Brescia – specializzata in interruttori elettrici – e dunque era uno dei pochi artisti allora ad avere qualche entrata. Una volta in un albergo Getulio mi disse: vedi quell’interruttore? L’ho disegnato io per la bticino. Non ho mai capito se fosse vero o no. Getulio era molto portato a distorcere la realtà (ma questo l’ho scoperto molto più tardi), anche delle sue frequentazioni. Get, come noi lo chiamavamo, era uno specialista a trasformare la realtà in fantasia. Ma era la sua natura, di cui non si rendeva conto. Lui era il maestro della disinformacja, allora molto in voga a Lubiana e Zagabria e nei paesi comunisti, dove contava numerosi colleghi diventati poi suoi amici. Dunque, per me Getulio era ricco. Anche perché in quegli anni le opere non si vendevano e il mercato era demonizzato. Era l’epoca dell’arte moltiplicata che doveva essere fruita da tutti. I gruppi T e N di Padova erano i più agguerriti sul piano ideologico e si scagliavano inferociti contro la mercificazione dell’arte, per cui (forse giustamente) preferivano collaborare con le aziende, oppure insegnare, anzi ché avere rapporti con le gallerie d’arte, che comunque erano rare e squattrinate. Lo stesso Argan a Roma, con tutto il suo seguito universitario, novello Savanarola, inveiva contro la mercificazione dell’arte, come se il Rinascimento fosse stato una espressione dei contadini e non dell’opulenza dei medici e della Chiesa che si contendevano gli artisti come fanno le gallerie oggi. Ma Getulio (che non era ideologicamente schierato, pur avendo attitudini anarcoidi) era il solo italiano ad avere rapporti internazionali con i colleghi di tutto il mondo e per cui si è impegnato sino allo spasimo per seguirli, esporli, farli conoscere, farli collezionare, trascurando spesso se stesso. Comunque, per me in quei primissimi anni Sessanta chi viaggiava in Porsche era ricco. Con Getulio abbiamo compiuto numerosi viaggi, con la sua porsche o con la mia Dyane Citroen. Una volta mi trascinò sino ad Amburgo per incontrare Mavignier, che Getulio ha considerato come un maestro assoluto dell’arte cinetica. Mentre non mi sembra che Alvir Mavignier, sia diventato un reale protagonsta del movimento. O forse non ne conosco a sufficienza la storia e i risvolti. Un’altra volta andammo a Delft, in Olanda ad incontrare Jan Schoonhoven, già allora famoso artista concreto, che aveva partecipato anche al gruppo Zero. Opere sempre e tutte bianche con dei piccoli quadratini a rilievo: a me faceva pensare un po’ a Castellani. Jan Schoonhoven, pur essendo un artista famoso, in patra e fuori (sue opere erano in tutti i musei olandesi), per sopravvivere (o per snobismo?) faceva il postino a Delft e ricordo che noi attendemmo il suo ritorno dal giro di consegne all’ufficio postale. Poi andammo nel suo studio, tutto bianco e immacolato, ordinatissimo, con centinaia di opere su legno, impilate una sull’altra. Non so come Getulio facesse a intendersi con Schoonhoven che non parlava una parola di francese, ma solo olandese, tedesco e discretamente l’inglese. Però vidi che gesticolando sembravano intendersi. Io parlavo con lui in inglese e mi raccontò la sua vita, semplice ma decorosa e serena, di postino e di artista. Mi disse che quell’impiego di postino gli lasciava abbastanza tempo libero per il suo lavoro di artista e per qualche viaggio in Germania. Era un uomo semplice e spartano, un po’ come Getulio. Prima di lasciarci, Jan Schoonhoven, visto che gli avevo promesso un articolo o intervista in Flash Art, mi volle regalare una sua opera, che di cui poi Getulio si appropriò, dicendo che gli serviva per una mostra. In realtà andò ad arricchire la sua già cospicua collezione di arte programmata e io il mio Schonooven non l’ho più rivisto. Ora è in mano dei suoi eredi. Come è avvenuto anche per un’opera di Morellet e Camargo che l’amico Get mi chiese in prestito per una mostra e che non ha fatto in tempo a restituirmi. Queste opere le rivedrò solo in qualche asta o galleria, prossimamente, poste in vendita dall'erede. Amen.
Un abito di Germana Marucelli della collezione "Optical" con motivi di Getulio Alviani, 1965. |
L'amore di Getulio per l'ex jugoslavia
Ma le sue mete preferite erano Lubiana e soprattutto Zagabria, dove operava il suo amico e collega Ivan Picelj, altro grande spartano che si accontentava del nulla. Picelj era una persona gentile e delicata, che pur vivendo di stenti, manteneva una dignità da sovrano di altri tempi. Poi, morta sua moglie, gli fu tolto l’appartamento e andò a vivere con la figlia, che lo aveva sistemato in una stanzetta monacale (ma di più non poteva, sotto Tito le vere abitazioni erano riservate alla nomenclatura, per i comuni mortali stanza e cucina e uno sgabuzzino), dove talvolta, insieme a Piceli dormiva anche Getulio. Su un tappeto, per terra. La stanza di Picelj mi ricordava quella di Giulio Carlo Argan che in una casa bella e spaziosa al Gianicolo, si era ritagliato per lui un loculo di 2 metri per 3, letto singolo in ferro e montagne di libri accanto che impedivano di muoversi. L’ampia casa era vuota. Solo una bella stanza luminosa era occupata da sua figlia Paola (una splendida ragazza molto intelligente), che lui avrebbe tanto voluto maritare. E non so se ci sia riuscito prima della sua morte. Quando si andava a Zagabria da Picelj, in un paesino vicino, abitava un altro importante protagonista dell’arte razionale, Julije Knifer, da cui ci fermavamo sempre. Ricordo che Knifer ci offriva un vino nero, ma proprio nero come l’inchiostro, di un suo amico contadino. Molto buono ma denso e forte da far girare la testa con mezzo bicchiere. Knifer in tutta la sua vita, un po’ come Buren, ma senza concedersi le distrazioni decorative del francese, ha dipinto una sorta serpentina geometrica. Sempre la stessa immagine di dimensioni diverse. E talvolta con toni del grigio differenti. Per tutta la vita. E oggi (post mortem) sta ottenendo uno straordinario successo, un po’ come Schoonhoven, sul mercato internazionale. Altri viaggi incredibili erano le visite a François Morellet a Cholet, uno sperduto (per me) paese della Francia. All’epoca Morellet era proprietario di una fabbrica di giocattoli tra le più importanti d’Europa, mi diceva: però quando arrivavamo smetteva i suoi panni da imprenditore e si dedicava a noi con grande slancio e affetto. Lui e sua moglie erano (la moglie lo è ancora) due persone impagabili. François amava raccontarmi di suo figlio gay che aveva aperto un ristorante di successo a San Francisco. Poi ne aprì uno a New York, dove i Morellet ci invitarono, a me e Helena, a cena. Ed era veramete squisito. Una sorta di nouvelle cuisine ante litteram per noi italiani (sto parlando del 1979/80). Ricordo ancora con un po’ di ansia un viaggio di ritorno da Cholet sempre con Getulio e con Pio Monti alla guida della sua molleggiante Citroen Pallas e io sprofondato nel sedile posteriore per dormire, con dietro la testa una scultura metallica aguzza di Morellet. Alla minima frenata improvvisa sarei stato sgozzato dal Morellet. Perché questi viaggi? Getulio, per un paio di anni è stato un suggeritore e organizzatore di mostre da Pio Monti nella sua galleria Artestudio a Macerata, dove esposero (e vennero quasi tutti gli artisti di persona alle inaugurazioni) i più importanti cinetici e astratti dell’epoca: Albers, Max Bill, Vasarely, Morellet, Lohse, Cruz Diez, Camargo. ecc. Un programma da museo in una piccola galleria di provincia. Un altro incontro incredibile fu a Londra, dove io e Helena, seguiti da Getulio, ci recammo per intervistare la star dell’arte cinetica Bridget Riley. Fu un incontro cordiale con una persona molto intelligente e di grande successo, che lei però visse con parsimonia conoscendone le insidie.
Getulio e il suo fantomatico museo
Durante la conversazione con Bridget, Getulio le chiese in omaggio un’opera per un futuro museo in Croazia, dedicato ad Anna Palange, la sua compagna deceduta qualche anno prima. il Get, con la sua insistenza da elemosiniere, era riuscito a farsi dare un’opera da tutti i suoi colleghi di tendenza. Ma Bridget Riley, che conosceva poco Getulio e che era molto gelosa del proprio lavoro, si rifiutò, offrendo invece dell’opera e con molta reticenza, una grafica. Getulio ne rimase molto frustrato e per anni odiò, maledicendola, Bridget Riley. Nel salutarci Bridget ci disse: voi sarete sempre i benvenuti in questo studio ma non portatemi più questa persona che è con voi. Non voglio più vedere un collega che al primo incontro mi chiede un’opera. Getulio era un grande conoscitore dell’arte cinetica. Lui mi ha insegnato a leggere le opere di Albers, Vasarely e di tutti gli altri, con una acutezza e chiarezza che non aveva eguali. Però era anche uomo di esclusioni viscerali: mi ostacolava ad approfondire la conoscenza con Dadamaino, che io conoscevo bene e che apprezzavo, perché a suo avviso aveva falsificato le date delle sue opere, datandole anni ‘50. Detto da lui, che ha firmato tutte le sue opere, anche le ultimissime, mi diceva per ragioni fiscali, datandole anni ’60, era il colmo. Un giorno di molti anni fa gli chiesi notizie di Marina Apollonio, figlia del famoso Umbro Apollonio, che lui da giovane aveva frequentato e in un certo senso indirizzato. Marina, per quel poco che conoscevo, mi interessava molto e avrei voluto incontrarla. Non lavora più, è scomparsa, mi disse. Invece Marina esisteva, operava in silenzio e oggi è diventata una protagonista della op art, molto più affernata e richiesta di Alviani.
Modelli di Germana Marucelli con stoffe disegnate da Getulio Alviani. Courtesy Domus. |
L’uomo che ritagliava i francobolli
Ma torniamo indietro di qualche anno. Udine 1962/63, mi pare. Quando faticosamente da Roma arrivai la prima volta nel suo bellissimo studio minimal a Udine (omaggio dello zio), con la mia traballante Dyane, notai che nel lavandino di Getulio, galleggiavano numerose buste con francobolli da 25 lire (il francobollo per l’affrancatura normale di allora). Davanti alla mia sorpresa mi spiegò che ritagliando tre francobolli usati ne ricavava uno nuovo, ma questo richiedeva un lavoro certosino e di precisione che lo impegnava più che realizzare una sua opera. E Getulio ha continuato a ritagliare francobolli sino a poco fa e a utilizzare sempre buste riciclate (rivoltandole) in cui inseriva lettere scritte rigorosamente a mano (Getulio non ha mai usato la macchina da scrivere o il computer e usava un cellulare antidiluviano). Quando veniva da me in redazione per fare delle fotocopie, lo vedevo estasiato davanti alle centinaia di buste (soprattutto alcuni anni fa) con bellissimi francobolli. E diventavano suo appannaggio. Anche perché in redazione, conoscendo questo suo amore per i francobolli, i ragazzi della redazione avevano preparato un cestello di vimini con buste affrancate per Getulio. E per questa sua mania aveva ricevuto numerose diffide, e forse qualche condanna, dalle Poste. Ma lui, nichilista e anarchico, continuava imperterrito e felice a ingannare il suo nemico implacabile: lo stato, il sistema, le istituzioni e gli uomini che le rappresentavano. Era riuscito ad escogitare un sistema per cui utilizzava un biglietto della metropolitana almeno dieci volte. Sino al suo disfacimento fisico. Mi spiegò che timbrava solo un angolino e a qualsiasi controllo rispondeva che la macchinetta era guasta. A Udine, nei primi tempi che lo frequentavo, era innamorato di una sua bellissima compagna di infanzia, Angioletta Brollo che aveva corteggiato invano. Angioletta, donna bellissima e concreta, preferì sposare un giovane pilota delle Frecce Azzurre, il quale spesso, a bassa quota, come segnale d’amore, volava sopra la casa della moglie. Ricordo che Getulio, gelosissimo, quando vedeva questo aereo faceva le corna e urlando lanciava maledizioni: brutta carogna, ti voglio vedere schiantato in mare o sulla collina con il tuo aereo maledetto. Un giorno il povero marito di Angioletta non fece ritorno a casa. Con il suo aereo si era schiantato in mare. Poi Getulio sposò Angioletta, che diventò la sua ambasciatrice: la bellissima donna che si vede spesso all’interno dei suoi ambienti e che si riflette deformandosi sulle pareti d’acciaio è lei. Ma il matrimonio con Angioletta (di cui Getulio odiava ostentatamente i figli avuto dal marito deceduto) non durò a lungo. Getulio era un impenitente dongiovanni, per cui tutte le sue donne ufficiali venivano continuamente e platealmente tradite.
Getulio più generoso di Berlusconi
Un giorno mi disse: vedi, io pago le mie donne più di Berlusconi, il quale le retribuisce con 1500-2000 euro. Io a ogni donna che è stata con me, regalo un’operetta 20x20, che oggi (allora) vale almeno 5000 euro. E se vedi una mia opera 20x20, sappi che arriva da una mia storia con una donna. Questo formato è stato pensato per loro. Agli inizi degli anni ’80 Getulio sparì dalla circolazione. Improvvisamente, dopo aver insegnato all’Accademia di Carrara, dove dopo alcuni anni era stato allontanato non ricordo per quale ragione, andò in Venezuela a dirigere il Museo Soto. Credo che lo abbia diretto egregiamente, con mostre di tendenza di alto livello. Ma Getulio, malgrado il rigore delle sue opere, era una persona molto disordinata e nei rapporti con le Istituzioni molto approssimativo. Credo che in Venezuela abbia creato qualche pasticcio, certamente per favorire il museo, ma poco trasparente. Per cui Soto lo cacciò in malo modo. Un esempio della sua anarchia fu una contestazione con Unicredit, a cui aveva progettato una splendida parete. Quando andai a vederla, un alto funzionario di Unicredit mi disse: signor Politi, cerchi di convincere il Maestro ad emetterci una fattura di 250 mila euro, come stabilito. Lui non vuol saperne e ci chiede di essere saldato in contanti. Se non fosse intervenuto il gallerista Paolo Seno, suo grande amico, intestandosi la fattura e per riversargli poi una quota in nero, Getulio avrebbe rinunciato all’importo. Non sono mica pazzo io, mi diceva. Con una fattura da 250 mila euro divento subito visibile e perseguitato dalla Guardia di Finanza per tutta la vita. Talvolta, camminando per Milano, allorché si incontrava un vigile urbano, un poliziotto o un carabiniere, Getulio fingendo di parlare con qualcuno ma guardando di traverso il suo nemico, incominciava ad inveire: “sei una fogna, un figlio di puttana, delinquente, ti vorrei vedere morto, ecc”. Per lui questa era una grande soddisfazione che rasentava la felicità. Ma la sua grande ossessione, il Male Assoluto, Il Grande Satana, era la Guardia di Finanza da cui, senza ragione, pensava di poter essere perseguitato, pur non avendo nulla da temere. Solo qualche quadretto venduto in contanti. Anzi, molti. Forse tutti. Spesso andavamo insieme a Trevi, in Umbria, dove aveva conosciuto un mio amico falegname, Luigino e che lui aveva stabilito fosse il migliore in assoluto in Italia e da cui realizzava le sue opere. Dal 1990 in poi, tutte le opere di Getulio Alviani sono state realizzate nella falegnameria Luigi Venturini di Trevi. Al ritorno riponeva nella mia macchina tutte le opere realizzate e tornavamo a Milano. Ma in un’area di parcheggio a Prato, lo aspettava il gallerista, ora scomparso, Marchese, della omonima galleria. Getulio gli consegnava dieci opere 30x30, oppure 40x40 intascando in contanti un milione ad opera. Lui apriva il bagagliaio della mia vettura, consegnava le opere e tornava in macchina con una mazzetta di dieci milioni di lire in contanti. Senza parlare, quasi fosse un rito segreto. Questo scambio avvenne più e più volte. Ma Getulio era un abilissimo rifacitore di opere altrui (per piacere e sfida). Anni fa pubblicò un sontuoso libro, in collaborazione con la Galleria Seno e Albert Totah, allora con la galleria a Milano, su Albers, con decine di opere riprodotte. Pare che la Fondazione Albers ne abbia disconosciute almeno la metà. A me ha regalato due meravigliosi Albers (e un Fontana). Con sul retro firma, timbri, etichette di gallerie, ecc. Tempo fa il rappresentante di una primaria casa d’aste tedesca passando a salutarmi vide alla parete quel bellissimo Albers e mi chiese se volevo proporlo all’asta. Conoscendo la provenienza e la storia di tutti gli altri Albers dissi di no. Lui mi chiese comunque la foto da mostrare ai suoi colleghi. Mi telefonò alcuni giorni dopo dicendo che tutti i suoi colleghi e i maggiori esperti tedeschi di Albers, trovavano l’opera straordinaria. Per sicurezza inviò le foto alla Fondazione Albers, la sola che abbia il diritto di autentica sull’artista. Pochi giorni dopo il mio amico tedesco mi chiamò addolorato e arrabbiato con la Fondazione perché si era rifiutata di autenticare quel capolavoro. Mentre il Fontana che Getulio mi ha regalato non oso nemmeno appenderlo sulla parete, immaginando la provenienza.
Graziella Lonardi Buontempo con un'opera di Getulio Alviani. Foto Piersanti. |
Una mia goliardata di cui sono pentito
Getulio possedeva un piccolo appartamento a Cortina dove spesso si rifugiava per periodi lunghi e dove riceveva anche le sue amiche. Tutte le finestre dell’appartamento erano chiuse ermeticamente per farlo apparire disabitato. Lo stesso era il suo appartamento a Milano in via Fauché. E il portiere, se non si era attesi, a tutti diceva: il maestro è fuori e non so quando torna. Tutte queste preoccupazioni per timore di essere scovato della Guardia di Finanza. Get amava l’anonimato e la clandestinità come nessuno. Ed era disordinato e inaffidabile con le sue cose, ma quando si parlava del suo lavoro cambiava radicalmente. Nessuna concessione sul lavoro suo e dei suoi colleghi, che difendeva e per cui ha lavorato sino allo sfinimento per promuoverli. Si lamentava spesso (parlo di qualche anno fa) che sul mercato Max Bill o Albers fossero sottovalutati. “Pensa che schifo”, mi diceva, “che vergogna, due geni che costano quanto me”. Io e Getulio avevamo un rapporto fraterno ma sempre conflittuale. Dopo la morte di Anna Palange, sua compagna negli anni Ottanta, ha abitato da noi, in una stanzina, un paio di anni. Quando ci recavamo insieme della mia casa in Versilia, lui voleva assolutamente dormire in un ripostiglio con un letto a castello, circondato da scope, detersivi, bottiglie di acqua minerale e di vino. Lasciando vuota una bella stanza con balcone. Collaborava spesso con Flash Art, scriveva su tutti gli artisti cinetici con grande passione e competenza (spesso ripetendosi, ma era inevitabile) ma mai mi ha chiesto qualcosa per se stesso. Anzi, per pubblicare una sua intervista o articolo sul suo lavoro dovevo insistere. Invece mi chiedeva spazio per i suoi colleghi, portandomi in redazione testi scritti a mano, con incollate sopra le correzioni. Con grande disappunto dei miei redattori che dovevano trascrivere e interpretare la sua calligrafia.
Alcuni anni fa, per paradosso e per gioco, io (goliardicamente) gli modificai un testo che lui aveva scritto contro la Transavanguardia che invece io avevo sostenuto. Lui considerava il loro successo insultante per l’arte. Soprattutto per la sua tendenza che rappresentava l’antitesi della Transavanguardia. Io prima di andare in stampa cambiai gli aggettivi negativi in positivi e, da un duro attacco alla Transavanguardia, ne uscì un testo a favore. Pensavo ne avessimo riso insieme e poi magari, sempre insieme, avremmo pubblicato una smentita. Qualche giorno dopo me lo vidi arrivare in ufficio con gli occhi iniettati di sangue. “Io ti ammazzo” mi disse, e mi aggredì fisicamente come non aveva mai fatto con nessuno. Pensavo di conoscerlo abbastanza da soprassedere allo scherzo. La sua aggressione mi sorprese e mi raggelò. Mai lo avevo visto così indignato e furioso. Questa è la mia vita mi gridò e non permetto a nessuno di scherzarci. Su tutto il resto puoi prendermi anche in giro, anche sul mio lavoro, ma non permetto scherzi quando io scrivo sull’arte e sui miei colleghi. È questa la più grave offesa che abbia mai ricevuto. Pensa cosa diranno i miei colleghi. Capii allora di aver sbagliato, gli chiesi scusa ma non si calmò. Nemmeno quando nel numero successivo feci una rettifica spiegando lo scherzo. Malgrado la nostra amicizia e continua frequentazione, la ferita non si è mai rimarginata. Ogni tanto la storia riemergeva dalla sua coscienza ferita.
Alviani, un avaro generosissimo (con gli altri)
Getulio era un avaro incallito. Camminava chilometri e chilometri senza prendere mai un mezzo pubblico. Oppure manometteva i biglietti della metropolitana usandoli dieci, venti volte. Il regalo più bello per lui? Un biglietto del tram. Ricordo che a New York Getulio attraversava perpendicolarmente tutta Manhattan: quindici chilometri? Forse di più. Senza autobus né metropolitana. E mai parlargli di taxi. Il taxi mi diceva mi ruba il denaro: se mi costa 10 euro vuol dire dieci in meno per me e dieci in più per lui. Fanno venti euro. Mi sento defraudato di venti euro. Una concezione dell'economia molto particolare. Più radicale del poeta Ezra Pound che pensava di eliminare la tassazione imponendola nel momento dell’emissione da parte della Banca d'Italia.
Ma la sua avarizia era speciale, tutta rivolta su se stesso. Un giorno arriva a casa mia e dice: “qui ci sono trentamila euro. A me non servono, forse a te sì”. A un mio collaboratore cingalese, Mendis, che a seguito dello Tsunami aveva subito danni alla sua casa nello Sri Lanka, donò settemila euro. Il ragazzo si ricostruì una villa. A Pio Monti prestò, sapendo di non riaverli mai più, 80 milioni di lire. Potrei citare altri episodi di generosità nei confronti di terzi, incredibili. Ma altrettanti episodi di una avarizia immotivata nei suoi confronti. Ad esempio, faceva la spesa una volta la settimana, il sabato, nel mercato rionale sotto casa di via Fauché: scendeva dopo le 13, mentre le bancarelle smobilitavano e si riforniva di verdure e di cereali aprezzi di saldi, spendendo, mi diceva orgogliosamente, un euro e arrivando al massimo a tre. Negli anni ’90 gli morì la sua donna, Anna Palange, la sola donna che abbia amato, lui diceva e a cui aveva lasciato in eredità tutto. Appartamenti, immobili, opere. Mentre la povera Anna era in coma io gli chiesi se aveva intestato qualcosa a lei. Tutto mi disse. Cosa intendi per tutto? Tutti gli immobili e tutte le opere. Ma tu dove andrai ad abitare risposi. Lui cadde dalle nuvole. Non si era reso conto che era diventato un senzatetto. Allora io e il comune amico François Inglessis abbiamo raggiunto il cappellano della clinica e con la forza, lo abbiamo costretto ad ufficiare un matrimonio in punto di morte: la povera Anna era in coma e secondo le norme della chiesa senza il consenso di entrambi non si poteva celebrare il matrimonio. Invece la nostra determinazione che spaventò il povero cappellano la fece unire in matrimonio, salvando immobili e opere di Getulio. Purtroppo negli ultimi due mesi della sua vita è stato creato un cordone sanitario attorno a lui, con la complicità di molte persone, per cui ci è stato impossibile salutarlo. Il permesso arrivò quando Getulio era in coma e non poteva più parlare. Noi suoi amici, saremmo stati felici di abbracciarlo e raccogliere i suoi ultimi pensieri (spesso Getulio era un pensatore profondo e originale), invece questo nostro desiderio ci fu negato. Perché purtroppo non coincidevano con le aspettative di chi lo teneva segregato. Alla sua ultima “fidanzata”, a cui Getulio aveva regalato un cospicuo gruppo di opere (pare 44) e a cui aveva promesso di sposarla, è stato impedito avvicinarsi al suo “fidanzato”. Proprio come accadde a Marta Marzotto, grande amore e ispiratrice di Guttuso a cui fu negato di incontrare il suo uomo morente. Perché la moglie (dimenticata da decenni) e la sua corte si impadronirono di un uomo, Renato Guttuso, minato dalla malattia e impossibilitato a reagire. Ma la vita è anche questo!
PS Mi sono dilungato troppo lo so. Ma dopo 50 anni di frequentazioni, di cui alcuni vissuti in simbiosi, su Getulio Alviani potrei scrivere non uno ma dieci libri. Più di quanto potrei scriverne per una mia autobiografia. Dal prossimo Amarcord, vi prometto, sarò
più breve.
Contributi
Grazia Varisco e i nostri incontri
Caro Giancarlo Politi,
I nostri incontri casuali in tanti anni sono stati frequenti, i contatti professionali piuttosto sporadici ma chiari. I tuoi Amarcord confermano un’attività intensa e un vissuto appassionato e partecipe alle vicende dell’arte, degli artisti, e...del contorno, di cui mi scopro poco informata e curiosamente interessata. Grazie della sollecitazione a colmare lacune di percorsi e della tua gentile citazione che mi riguarda. Buon Amarcord.
Grazia Varisco
Rapporti sporadici. Peccato
Ciao Grazia,
hai ragione, i nostri rapporti professionali sono stati sporadici e me ne dolgo. Quando si è giovani si vuole conquistare il mondo e si perde di vista l’orto del vicino, talvolta ricco e profumato. Ma ho perduto frequentazioni più assidue e professionali anche con Gianni Colombo (che spesso veniva a salutarmi in via Farini, insegnando lui alla Nuova Accademia di allora, in via Bassi, a duecento metri dalla nostra redazione) e desideroso di parlarmi del suo lavoro, o Dadamaino con cui più volte ci siamo ripromessi di incontrarci a studio e tutto il vostro gruppo e molti altri. Avverto anche una forte nostalgia di Gianfranco Pardi, artista che meriterebbe più attenzione. Io viaggiavo a New York ogni due mesi ma anche a Londra, Parigi, Berlino, talvolta anche in Asia. E a Praga ovviamente. Ma poco in Italia e anche a Milano. Ma soprattutto mi sono lasciato influenzare, come ho spiegato nel mio Amarcord di oggi, da Getulio Alviani, che per sfogare i suoi livori personali, mi portava solo attraverso i suoi itinerari, impedendomi di allargare lo sguardo altrove.
Cara Grazia, io ti ho seguito come ho potuto, (ho visto una tua opera, la prima volta nel 1962, a Roma, alla mostra dell’arte programmata presentata da Umberto Eco e poi mi pare a San Marino e altrove). Bellissime opere in sintonia con le ricerche del tempo. Ma anche se non ci siamo frequentati ho sempre apprezzato il tuo lavoro, svincolato dalle ideologie che all’epoca avvelenavano l’aria e l’arte. Qualche anno fa abbiamo pubblicato una tua bellissima intervista. E spero si ripresenti qualche occasione per riprendere il filo. Magari con mia figlia Gea, anche se Flash Art è un camaleonte pronto sempre ad interpretare lo zeitgeist. Ed ora è qualcosa di diverso (credo migliore) della mia creatura. I tempi invece sono peggiori di quelli di una volta.
Liuba vuole andare da Costanzo
Caro Giancarlo,
che bello questo amarcord con il racconto dei tuoi inizi, delle tue passioni e dello sviluppo della tua strada, mischiato alla curiosità e al sapore delle dinamiche di un periodo storico totalmente analogico che poco conosciamo noi della nostra generazione e di quelle successive.
Mi ha divertito tantissimo leggere le vicende della tua partecipazione a Lascia e Raddoppia e di tutta una catena di fatti ad essa connessi, e assaporare le dinamiche di quel periodo. Tutto ciò mi ha riportato alla luce anche un fatto curioso, che mi riguarda, e che avevo dimenticato. A dicembre 2000 scrissi a Maurizio Costanzo per farmi invitare alla sua trasmissione televisiva, ufficialmente per parlare in tv della realtà dei giovani artisti - di cui non ne parlava quasi nessuno, eravamo come mosche bianche invisibili per il mondo - ma con il sotterraneo intento di farci una 'performance nascosta' prendendo un po' in giro la trasmissione senza che nessuno se ne accorgesse, se non chi la vedeva con certi occhi. Se mi invitavano sarei andata in trasmissione vestita da damina dell'800, a sorpresa, per dimostrare che se la gente facesse con la moda ciò che fa con l'arte andremmo vestiti con gli abiti di cento anni fa. Scrissi una letterona a Costanzo, e ricordo che fu difficilissimo trovare l'indirizzo diretto, che non trovai e la mandai alla trasmissione, senza ricevere mai risposta e senza nemmeno sapere se lui l'aveva letta e ricevuta. Grazie Giancarlo, attraverso il tuo amarcord, hai attratto questo mio amarcord - molto più recente del tuo, ma che mi fa sorridere e mi piace compartirlo con voi. Ero davvero convinta di andare da Costanzo vestita coi vestiti ottocenteschi per parlare della desolata situazione dell'arte contemporanea nell'opinione pubblica nostra società!
La lettera che avevo scritto, un po' pomposa e inconcludente, forse tocca un punto che oggi è ancora degno di essere toccato, e anche se la situazione è un poco migliorata poichè di arte oogi se ne parla di più, i pregiudizi e la non conoscenza della realtà degli artisti sono sempre presenti e difficili. Come scrivevo nella lettera "La difficoltà e la tenacia nel fare arte, nel cercare di proporre contenuti, è condivisa da molte persone che, lottando, vanno avanti. Oppure ci sono anche tanti altri che, sempre a causa delle stesse difficoltà, abbandonano o accettano compromessi. Di tutto ciò sarebbe importante a mio avviso parlarne. Far emergere questo mondo misterioso e sommerso degli artisti che spesso è malvisto proprio perché non si conosce nella sua realtà di persone concrete. Sarebbe importante far conoscere al grande pubblico che esistono tanti talenti artistici, tanti giovani che credono nell’importanza dell’arte e vi faticano, ma che spesso non possono continuare perché lasciati completamente a sé stessi…".
Sono passati esattamente 18 anni e poco o nulla è cambiato, e se Costanzo leggesse queste righe e mi invitasse, forse forse ci andrei. Un abbraccio. Liuba
Caro Costanzo, invita Liuba
Caro Costanzo
non ci conosciamo. Ma se qualcuno ti riporterà questo messaggio, per favore invita alla tua trasmissione (ma esiste ancora?) Liuba, nipote del famoso (per me) poeta Elio Pagliarani. Ti assicuro che non te ne pentirai.
Marco Nereo Rotelli
Caro Giancarlo, bello il racconto sul tuo viaggio nella poesia. Ho anche apprezzato le parole su Pound, le tue e quelle del bravo Bolzoni. Quest’anno ho realizzato con Yoko Ono una installazione nel giardino del Castello di Brunnenburg nel segno di una poesia totale. Salutandoti, una domanda: ma la poesia non ti sta ri/chiamando? Hai quasi bistrattato le tue poesie giovanili che forse sono un tuo volto. Non le ho mai lette. Ma questo mostra la poesia: il volto dell’essere.
PS. Apro l’anno prossimo in zona Mecenate ‘Art and Poetry' dove vorrei invitarti. E’ una ex fabbrica, fu un giocattolificio, dove troveranno posto le porte del 'bunker Poetico' che realizzai alla Biennale di Venezia diretta da Harald Szeemann, ma anche tante opere create con i poeti che ho frequentato.
Spero verrai a trovarmi. Marco Nereo Rotelli
La poesia è un peccato di gioventù?
Caro Marco, le mie poesie? Peccati di gioventù. E ora che ho superato la terza età, ritorno fanciullo e rileggo i grandi poeti e ciò che io ho scritto nel 1956, il mio “anno d’oro”. Direi anche l’ultimo. E ho sentito più vergogna che orgoglio. Mia figlia Gea, prima della mia dipartita, vorrebbe pubblicare un volumetto. Ma io faccio fatica a mettere insieme trenta poesie decenti. La poesia, quella vera, è stata soppiantate dai nuovi menestrelli che hanno saputo interpretare e cambiare il mondo delle idee e delle parole (Bob Dylan, Jimi Hendrix, John Lennon, Jim Morrison, Freddy Mercury, Amy Winehouse e nel nostro piccolo Fabrizio De André). Il confronto con loro e i “poeti laureati” come direbbe Montale, è impari. Alla poesia tradizionale restano solo parole al vento. Auguri per il tuo spazio anche se la vedo dura in una città come Milano. La tua idea funzionerebbe bene a San Francisco o anche a New York. L’Italia è un paese non sufficientemente disperato per ritrovarsi nella poesia.
Un appello per Pietrasanta
Un appello per Pietrasanta
Caro Direttore,
leggendo e rileggendo le sue parole mi ritrovo nello stesso spirito che la porta a ricercare nella Versilia il giusto luogo dove ‘scrollarsi dai polmoni la polvere di Milano’. Conduco una vita simile alla sua. Lavoro a Milano dove faccio il primario ortopedico, in una nota struttura del centro; amo la chirurgia dell’anca e del ginocchio, ma l’usura biologica del mio lavoro mi impone la necessità di rifugiarmi nell’arte e proprio a Pietrasanta nei week end. Lei non lo ricorderà ma proprio li, la scorsa estate, ci siamo conosciuti nella mia galleria in via Garibaldi, la Futura Art Gallery, teatro di due personali, proprio di Giuseppe Veneziano e Robert Gligorov, gli artisti da lei citati per il comune amico Egidio Giorgi. Perchè ho sentito la necessita di aprire una galleria in un periodo storico oggettivamente improbabile? Per lo stesso incondizionato amore per l’arte, per incontrare gli amici, ma senza mai perdere di vista l’obiettivo di voler fare le cose bene. Ho imparato che anche nell’arte sono necessari step rigorosi, quasi scientifici, come nel mio lavoro. L’improvvisazione non ti consacra a titolo di gallerista, men che meno il solo riempire di opere un garage lo può fare. Il mio sogno? Cercare di smuovere Pietrasanta dal suo peccato originale che la porta ad essere autoreferenziale. Il direttore della mia galleria, Claudio Francesconi, dice ‘sembra sempre che quello che succede fuori non si veda a Pietrasanta e quello che accade a Pietrasanta, fuor da qui, non lo sa nessuno’. Ha ragione…. Io vorrei rompere questa barriera con un programma ambiziosissimo per la fine di questo 2018 e per l’anno a venire, in una piccola galleria che ha l’ardire di presentare una scaletta quasi museale, con molte opere esposte, provenienti da collezioni private e che neppure saranno in vendita.
La nostra regista sarà la professoressa Vittoria Coen… e quindi ci portiamo un po' di Milano: i cinetici (Toni Costa, Dadamaino, Davide Boriani, Gianni Colombo, Armando Marrocco, Franco Grignani). Una personale di Giorgio Griffa. Una collettiva tutta sull’acciaio. Fausto Melotti con Angelo Bozzola. Una personale del francese Philippe Delenseigne. Una personale del ritrovato Angelo Bozzola del MAC. Caro Direttore, venga ancora a scrollare le nebbie Milanesi dai polmoni a Pietrasanta, ma non dimentichiamoci di portare nella ‘piccola Atene toscana’, il sapore di quella Milano, che oggi è il nostro inevitabile motore italiano. Ci aiuti a far dialogare la Pietrasanta, che tutti amiamo, con il resto del mondo. Augusto Palermo.
La Versilia, roccaforte del cattivo gusto
Caro amico Palermo,
io amo profondamente Pietrasanta e quando riesco a venire in Versilia (sempre meno) non mi faccio mancare una visita a questa splendida cittadina. E una cena a Il Posto dell’ottimo Simone che conosce i miei gusti spartanii: da lui sempre e solo spinaci e una sogliola. Purtroppo non amo l’atmosfera culturale di Pietrasanta. Credo che sia così bella che non abbia bisogno di essere contaminata dall’arte contemporanea. L’arte contemporanea non si addice alle nostre bellissime città storiche che giustamente da essa si sentono deturpate (Firenze, Siena, Pisa, Perugia, ecc.). E Pietrasanta è deturpata dalle mostre pubbliche (come quasi sempre in tutto il nostro Bel Paese), dettate da una programmazione politica che fa inorridire. Una piazza così bella va lasciata libera allo sguardo e non invasa da bancarelle e mostri d'arte. Bastano i bar un po’ stipati che però ti permettono di godere di tanta bellezza. Il programma della sua galleria, anche se un po’ confuso è buono per Pietrasanta ma andrebbe ripulito. E visto che lei non pensa di arricchirsi con l’arte (spero sia ricco di suo) e Pietrasanta non è la location ideale, cerchi di fare un po’ di ordine. Purtroppo vedo la Versilia (in primis Forte dei Marmi), roccaforte del cattivo gusto in generale e artistico n particolare, in mano a politici che vogliono occuparsi di arte e che combinano solo degli sfracelli. Facendo “rabbrividire" il marmo per il cattivo uso che ne fanno certi “artisti”. Il marmo è un materiale sacro e nell’arte va dosato con sapienza e cautela. Meglio un buon bidè (o bidet) di tante brutte sculture che infestano la Versilia. Se tornasse Michelangelo, per prendere le distanze dal cattivo uso del marmo, userebbe la plastica, come ha fatto il grande Pistoletto a Firenze. Per rincorrere l’eternità gli artisti usino il cervello e il cuore ma non il marmo.
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