lunedì 24 dicembre 2018

Amarcord 24 - Incontri, Ricordi, Euforie, Melanconie

Amarcord 24

Incontri, Ricordi, Euforie, Melanconie

di Giancarlo Politi
per intervenire, controbattere o esprimere una propria opinione scrivere a

A proposito di Amarcord

Cari amici, eccomi ancora, faticosamente a voi. A causa dell'inquinamento di Milano, che io soffro in modo particolare, i miei riflessi si sono rallentati e le mie scadenze che per oltre 20 settimane avevo osservato scrupolosamente, sono saltate. Il prossimo Amarcord uscirà a gennaio 2019. Nel frattempo andrò a respirare un po' di aria migliore  sulle colline di Vicenza ma soprattutto in Versilia.
Spero che nel frattempo mi illumini qualche ricordo non banale su cui scrivere. A tutti un grande augurio di feste serene e un abbraccio da Giancarlo Politi.   

Un dolce Amarcord da parte di Giorgio Colombo (che con il suo lavoro ha messo in piedi il più straordinario Archivio di Arte Contemporanea dagli anni 60 ad oggi), un omaggio natalizio da parte dell'amico Giorgio, particolarmente apprezzato per rievocare i nostri verdi Anni 80 a Milano. In questo caso siamo ad una mostra di Charlemagne Palestine, da Salvatore Ala.
New York Anni '80 (Parte Prima)

Gli anni '70 nella New York dell'arte (ma ovunque credo), per quanto riguarda il mercato  ma anche la creatività, furono anni di appiattimento e sofferenza economica. Dov'era finito l'entusiasmo artistico giunto alle stelle e la grande ondata di nuovi collezionisti degli anni '60 che si contendevano i primi capolavori di Jasper Johns, Robert Rauschenberg, Roy Lichtenstein, Andy Warhol, a mille o duemila dollari per rivenderle dopo un anno a 100 mila? E in casi particolari acquistare da Leo Castelli un vero masterpiece di Jasper Johns a 900 dollari, come avvenne per il direttore (e fondatore) del MoMa Alfred Barr, perché la commissione acquisti del suo museo gli aveva bocciato l'offerta ufficiale di 2 mila dollari. Alfred Barr, in qualità di direttore, poteva acquistare, senza alcuna autorizzazione, opere sino a 900 dollari. E Leo Castelli, suo grande amico ed estimatore, (ogni giovedì sera, immancabilmente, si ritrovavano a cena insieme per parlare d'arte e dei nuovi artisti insegnandosi cose a vicenda), rinunciando a qualsiasi pur minimo guadagno e convincendo Jasper Johns, glielo cedette per 900 dollari. Ora quell'opera è uno dei capolavori assoluti della Pop Art americana al MoMa. Valore? Diciamo 100 milioni di dollari? Forse molti di più. Ed è stato acquistato a 900 dollari, il prezzo di un paio di scarpe sulla Madison Avenue oggi. Ma all'epoca non era ancora avvenuto lo sbarco della Pop Art alla Biennale di Venezia, dove trionfò contro ogni aspettativa conquistando in seguito i musei, le gallerie e i mercati del mondo. Fu un successo travolgente (successo, strano a dirsi ma che per velocità e visibilità equiparabile solo a quello della Transavanguardia, sebbene con sviluppi ben diversi) che sconvolse la sacralità dell'arte e da cui nacque il sistema dell'arte di oggi e soprattutto sconvolgendo la signorile indolenza di tutti i mercanti del mondo, che consideravano questi artisti dei grossolani parvenus. 

Leo Castelli e Ileana Sonnabend durante l'installazione di "Jammers", Robert Rauschenberg alla galleria Castelli 420 West Broadway (1975) Fotografia di Gianfranco Gorgoni. © Gianfranco Gorgoni. Artwork: © Robert Rauschenberg Foundation / Licensed by VAGA, New York, NY.
La New York di Pollock e Barnett Newman lascia il posto alla Pop Art

La New York di Pollock, Barnett Newman, Rothko, con le leggendarie gallerie Sydney Janis, Marta Jackson e Betty Parsons guardava con sufficienza e un po' di disprezzo questi giovani artisti, poi definiti "pop", che grazie all'intuizione di Leo Castelli che li scoprì cercando il nuovo in giro per New York, come un cane da tartufi, iniziarono ad attirare l'attenzione dei più illuminati collezionisti americani e di alcuni musei, compreso il MoMa. Ma i loro prezzi, sino alla partecipazione alla Biennale di Venezia del 1964, che ne decretò anche il successo internazionale, erano (soprattutto a compararli con i record di oggi) molto, molto accessibili. E da Parigi la galleria di Ileana Sonnabend (moglie di Leo Castelli, certamente la vera intelligenza e stratega della famiglia) inondava con la Pop Art, le più propositive gallerie e musei d'Europa. Ma a questa decade di grande energia e di grandi artisti seguì una decade, quella del 1970-1980, di apparente appiattimento e di congelamento dell'energia e della fantasia. Le Galleria più propositive di New York, Paula Cooper, Virginia Dwan, John Weber, la stessa galleria di Leo Castelli e tutte le altre minori, erano invase dallo tsunami della nuova ondata artistica, cioè, la Minimal Art e l'Arte Concettuale, correnti apprezzate da pochissimi e sofisticati collezionisti e da una critica molto elitaria, che si era autoesclusa dal celebrare la Pop Art, secondo loro un prodotto per palati poco raffinati. Non più dunque l'energia straripante di Jackson Pollock o i colori soffusi di Mark Rothko o quelli più accesi di Barnet Newman o violenti di Frank Stella, ma pavimenti metallici pressoché invisibili e su cui camminavi senza accorgertene di Carl Andre, le strutture grigie alle pareti di Donald Judd, i quadretti opachi con le date bianche di On Kawara, i fili che delimitavano lo spazio di Fred Sandback, le definizioni dal dizionario di Joseph Kosuth. E tutt'al più i neon fluorescenti che segnavano il perimetro della galleria di Dan Flavin. Che invece  incendiarono di entusiasmo il conte Giuseppe Panza di Biumo ma non molti altri. Ricordo bene quegli anni e le gallerie deserte, con rarissimi visitatori e ancor più rari acquirenti. Gallerie che emanavano un senso di  desolazione che certo non aiutavano il morale: nè della critica più generalista dei grandi media né dei collezionisti.

Holly Solomon e Andy Warhol (1966) di fronte al ritratto di Holly. Courtesy Christie's.
 La Minimal Art e il senso di depressione a New York

Quando entravi in una di queste gallerie, avevi la sensazione di entrare in una chiesa che praticava la vera spartanità in tutti isensi. Ma l'Europa, più colta e sofisticata, era il grande serbatoio per questi artisti e una flebile àncora di salvezza per le gallerie americane. La vecchia Europa si riprendeva così la rivincita su New York che negli anni '60 era diventata la nuova protagonista dell'arte contemporanea soppiantando completamente Parigi. Il Belgio, la Germania e l'Italia (con le gallerie Sperone, Toselli, Françoise Lambert e Marilena Bonomo), erano diventate le mete abituali di questi artisti (Sol LeWitt, Richard Serra, John Baldessari, Larry Weiner, Mel Bochner, Michael Ashley) che avevano bisogno di un riconoscimento europeo come lasciapassare a New York. Erano comunque momenti molto difficili, sia in Europa che a New York, anche se un occhio esperto avvertiva che questi artisti erano portatori di novità e di moralità nell'arte. Giuseppe Panza di Biumo e alcuni collezionisti belgi e tedeschi facevano shopping nelle gallerie di New York (e Panza di Biumo anche a Los Angeles) acquistando a prezzi di saldo opere che oggi hanno valori elevatissimi. Ricordo che queste gallerie italiane, il cui lavoro di quegli anni è stato per fortuna registrato da Giorgio Colombo, rappresentavano una forte spinta verso la depressione. Malgrado ciò, numerosi collezionisti illuminati contribuirono a sostenere le gallerie e gli artisti. Ma se le grandi gallerie newyorkesi di uptown boccheggiavano, a Soho, il nuovo quartiere dell'arte e della moda, incominciava a farsi spazio e ad avere voce, soprattutto grazie ad una nuova galleria, ls Holly Solomon, che esponeva giovani artisti che riscoprivano la gioia del colore e della vita: stava nascendo la Pattern Painting, la pittura decorativa che voleva riscoprire le proprie radici provenienti dall'artigiano degli indiani d'America. Sulla strada e nelle gallerie minori, scorgevi una esplosione di colori che turbavano l'occhio così mortificato dall'arte concettuale e minimal. E giovani artisti, uomini e donne, seduti per strada che coloravano tele e le cucivano insieme, ricordando appunto le donne indiane nel loro lavoro domestico. Iniziavano così, un po' in sordina ma anche con sorpresa, gli anni di celebrità (fugacissimi) di Robert Kushner, Robert Zakanitch, Valerie Jaudon, Kim Mac Connell, che in poco tempo divennero famosi e ricchi. Dall'Europa arrivava in giornata il solito Bruno Bischofberger a svuotare gli studi per riempire gli uffici e le case dei suoi amici collezionisti di Zurigo e di Saint Moritz. Il fulcro di questa nuova ondata era una galleria che aveva aperto da pochi anni, proprio a SoHo: Holly Solomon. Donna di fascino, ex attrice, sposata con Horace Solomon, collezionista e appassionato d'arte, la galleria di Holly fu per breve tempo il centro della nuova arte a New York. 

Annina Nosei e Jean Michel Basquiat. Courtesy Annina Nosei.
Da Holly Solomon si avvertì il primo ritorno al colore

Ricordo che il sabato e la domenica, un'orda di appassionati d'arte, provenienti da tutta la regione di New York, si riversava su Soho, facendo credere a molti di questi giovani artisti di essere improvvisamente diventati dei geni. L'euforia fu breve, perchè il loro successo fu fulmineo e fugace: credo che l'interesse durò solo due tre anni, ma intanto, grazie a loro, il clima era cambiato e sulla scena si affacciavano nuove gallerie con proposte nuove e soprattutto tanti nuovi e giovani collezionisti che stavano diventando affermati professionisti e desideravano distinguersi arredando casa e ufficio con opere molto colorate e visibili. Erano anche gli anni in cui  la nostra Francesca Alinovi frequentava assiduamente New York, inoltrandosi con molto coraggio e tanta incoscienza in quartieri allora off limits come il Bronx e Harlem. Quando la incontravo sola, di ritorno da queste intrusioni che facevano accapponare la pelle, le chiedevo perché frequentava posti così pericolosi e vietati ai più. Sorridendo mi rispondeva che questi luoghi proibiti, con ragazzi di colore che la importunavano anche solo per offrirle una dose di LSD, questi luoghi dicevo, le davano molta adrenalina, che l'aiutavano ad affrontare la vita. Strana la sua sorte: uscita sempre indenne da Harlem e dal Bronx, gli inferni reali del momento, è invece morta nella cucina di casa sua a Bologna, dopo un pericoloso gioco con il suo fidanzato, un apparente innocuo giovane artista di provincia.  Francesca, amica di Holly Solomon, organizzò anche una bella mostra di artisti italiani, The Italian Vawe, estrapolata credo dal gruppo dei Nuovi Nuovi di Barilli, con Ontani, Salvo, Jori, Bartolini, Benuzzi, Spoldi. La mostra, molto ben curata, fu accolta benevolmente dal pubblico e dalla critica, con una buona recensione anche su Artforum. Malgrado ciò l'onda italiana non ebbe molto seguito e l'interesse per questi artisti, così ben accetti, terminò con la mostra. O subito poco dopo. New York aveva occhi benevoli solo per New York. Holly Solomon, persona aggraziata e civile, divenne, insieme a Mary Boone, la Regina di SoHo. La sua galleria e la sua casa diventarono luoghi di culto e di incontri tra artisti, critici e collezionisti. Una sorta di cenacolo nel cuore di SoHo. Ma come dicevo, l'ondata della Pattern Painting ebbe vita breve. E così, come improvvisamente erano emersi, i vari Kushner, Zakanitch, Mac Connell, altrettanto improvvisamente scomparvero. Il loro background era più da figli dei fiori che non da artisti professionisti, con le sue regole e le sue strategie. I collezionisti americani ed europei si stancarono presto di questa pittura decorativa fine a se stessa. Ma la Pattern Painting scomparve  lasciando tracce sotterranee a SoHo e in tutta Manhattan.  Un figlio della Pattern Painting, ma con una forza e originalità straordinaria, fu la nuova stella, che sfuggì agli occhi attenti di Leo Castelli invece avrebbe voluto esporlo senza riuscirci: parlo di Julian Schnabel. Che per la sua prima mostra, nel 1979, scelse il nuovo, cioè Mary Boone, la dirimpettaia di Leo Castelli al 420 di W. Broadway. Con grande disappunto di Leo che dopo la Pop Art, veniva considerato lo scopritore di nuovi talenti. Julian si presentò da Mary Boone con grandi quadri colorati e con fondi di piatti incollati alla tela. Un effetto formale e coloristico straordinario e innovativo. All'epoca si disse che Schnabel usava i piatti rotti per l'odio che aveva accumulato nei loro confronti avendo fatto, per qualche tempo, il lavapiatti. Ma se la stella di Schnabel era apparsa nel cielo di New York, una gallerista italiana, tra le più colte e intelligenti, Annina Nosei, con sede a pochi isolati da Mary Boone, stava affacciandosi sulla scena proponendo in avanscoperta, giovanissimi artisti che ben presto avrebbero preso il volo. Parlo di Jean-Michel Basquiat, Keith Haring, Jeff Koons, Barbara Kruger.  Annina Nosei fu la prima gallerista a dare fiducia a Jean-Michel Basquiat, facendolo vivere nella sua galleria, dove io e Helena lo incontravamo e dove Annina organizzò la sua prima mostra personale. Jean-Michel Basquiat era legato a Keith Haring, per le comuni esperienze graffitiste (e col nome di Samo, ebbe una personale in assoluto anticipo su tutti da Emilio Mazzoli, portato da non so chi. Forse da Annina Nosei. 
I nuovi guerrieri stellari
Ma Emilio non capì Samo, alias Jean-Michel Basquiat (ma che non era ancora diventato Basquiat) e i loro rapporti terminarono con quella mostra, di cui però Mazzoli non parla molto volentieri (bisogna dire che all'epoca non era facile capire molti artisti emergenti, soprattutto questi giovanissimi writers e grafitisti, un po' artisti e molto teppistelli, che imperversavano su New York, girando come forsennati sui pattini e con il casco, come guerrieri stellari. Mi passavano accanto a velocità sostenuta e vestiti da alieni e mi facevano impressione. Ricordo il più famoso di loro, Rammelzee, veloce come un treno, sui suoi pattini sottili che mi sfiorava entrando o uscendo da una galleria. Rammelzee negli anni '80 era considerato una grande promessa del grafitismo. Amico di Basquiat che gli aveva anche disegnato la copertina di un disco (Rammelzee aveva un ottimo successo anche come cantante), era il più famoso dei grafitisti: grande amico di Francesca Alinovi ma anche nostro, non mantenne però le premesse iniziali di artista "gotico futurista". Morì abbastanza giovane, per problemi polmonari causati dall'uso di bombolette spray, di cui aveva sempre piene le tasche.
In ogni caso New York era tornata la città dell'arte e della gioia di vivere, della vita sociale e della Factory di Andy Warhol. Tutta la vita mondana e culturale di New York ruotava attorno allo Studio 54, un'immensa bolgia che ogni sera raccoglieva migliaia di giovani e non, per drogarsi di musica assordante e di altro. Lo Studio 54 nacque da un'idea di Steve Rubel, fratello del grande collezionista Don Rubell e amico lui stesso di numerosi artisti che poi aveva invitato a decorare l'interno del grande teatro e già studio televisivo, da cui Steve aveva ricavato la discoteca più grande di New York con di diverse piattaforme per l'orchestra, piste d ballo, bar, ristoranti e angoli bui dove molti ragazzi vivevano le loro intimità e i loro malesseri. Ma esistevano zone d'ombra più tranquille dove i meno scalmanati potevano ritirarsi per un drink o per un pranzo spartano. All'ingresso due buttafuori giganteschi il giorno prima della serata a cui eravamo stati invitati, avevano respinto Madonna (non ho mai capito se con un reciproco accordo perché i giornali ne parlarono impietosamente, con enorme visibilità per Madonna e per lo Studio 54). 

Lo Studio 54, nota discoteca di New York situata tra la Settima e l'Ottava Avenue, aperta tra il 1977 ed il 1986.
Lo Studio 54, discoteca, luogo di spaccio e centro culturale

Perché questi due colossi posti all'ingresso, non so con quale criterio, si divertivano a dire tu si, tu no, dividendo spesso gruppi di amici. Ma aver trascorso una serata allo Studio 54 era per tutti i giovani e no, un titolo di merito da esibire nella New York di giorno. Noi, in compagnia di Francesco Clemente, che quella sera inaugurava un suo affresco all'interno di Studio 54, fummo dei privilegiati, malgrado l'occhio bovino di un buttafuori fissato su di me, non proprio abbigliato da Studio 54. L'energumeno mi avrebbe volentieri preso per il collo e gettato sulla strada. Avvertivo la sua frustrazione dallo sguardo feroce ammansito da una pacca di Francesco Clemente. In tal modo, sotto la  protezione di Francesco, entrammo nel paradiso artificiale della più importante discoteca del mondo, orgogliosi anche noi di poter dire a Milano Io c'ero. Io e Helena ci eravamo rifugiati in un angolo con la rispettabile e conosciutissima famiglia di Roselee Goldberg, la madre della storia della performance, per cui ci sentivamo abbastanza protetti dalle intemperanze dei cantanti che con viso truce, si aggiravano nello studio. Ed eravamo anche al riparo dei pusher che talvolta diventavano aggressivi ma che grazie a Dakota Jackson, il marito di Roselee, alto 2 metri, si tenevano a debita distanza. Tutti sapevano che allo Studio 54 non si scherzava. Nel bene e nel male. In un tavolo vicino a noi, attorniato da un gruppo di giovani amici, ma intoccabile, siedeva Andy Warhol, in silenzio, viso algido e sguardo fisso nel vuoto. Andy Warhol, scoperto anche lui da Leo Castelli, era l'uomo del silenzio, una sfinge, a cui carpire una parola, uno sguardo o un sorriso era una vincita al lotto. Ti fissava con i suoi occhi azzurri, che sembravano di vetro che ti mettevano l'angoscia. Andy era un incredibile igienista, sfuggiva nel modo più totale il contatto umano e quando Leo Castelli me lo presentò, lui si irrigidì, evitando di darmi la mano e mi disse solo " hi". Io non ho mai capito come potesse esprimere la sua omosessualità se era ossessionato dal minimo contatto umano. Mi piacerebbe parlare con qualche suo intimo. Il gallerista tedesco, Hans Mayer, suo rappresentante in Germania e anche in Italia per i ritratti (pare che solo al nord Italia ne abbia fatti più di duecento: Hans Mayer prendeva gli ordini, poi quando raggiungeva la cifra di venti trenta, passava Andy a scattare delle polaroid e dopo qualche settimana ti arrivava il ritratto a casa. Costo? Venti milioni di lire con cui all'epoca acquistavi un bilocale o trilocale in zona semicentrale di Milano. Quando qualcuno vi dice di aver avuto il ritratto di Andy Warhol per amicizia o stima non credetegli. A parte qualche artista con cui lui scambiava il lavoro (oppure personaggi famosissimi come Liz Taylor, Marylin Monroe, Mao, ecc.) tutti gli altri ritratti (compreso Armani) che vedete di Andy Warhol, sono costati venti milioni di lire cadauno. Importo di cui Andy teneva il 50% e il resto suddiviso tra lui, Roman Schlemmer, nipote dell'artista Oskar Schlemmer, che lavorando a Milano nella moda aveva la possibilità di trovare i clienti per Warhol su Milano e Lombardia e Hans Mayer, suo amico e, rappresentante di Andy Warhol e veniva spesso a Milano a riscuotere gli importi per i ritratti.

Il Trionfo della Transavanguardia nella Grande Mela


Ma perché Francesco Clemente era stato invitato a decorare una sala della discoteca più famosa del mondo e perché aveva libero accesso allo Studio 54 e il potere di portare degli ospiti? Non dimentichiamo che siamo negli anni '80 e New York aveva decretato il trionfo della Transavanguardia italiana. E Clemente ne era uno dei protagonisti. Ricordo una sua mostra, in tre gallerie diverse, da Sperone-Westwater, Mary Boone e mi pare Leo Castelli. Inaugurazione stesso giorno e stessa ora. Ricordo le processioni interminabili davanti alle sue gallerie quel giorno. New York aveva incoronato il giovane napoletano arrivato (quasi) come un emigrante qualche anno prima. Esporre contemporaneamente nelle tre più importanti gallerie di Manhattan, non era accaduto a nessuno. Solo Sandro Chia, non ricordo se poco prima o poco dopo Francesco, ebbe lo stesso onore. Insomma, la Transavanguardia, varcando l'oceano, era stata l'ambasciatrice dell'Italia a New York. Credo che mai nessun ambasciatore era riuscito a portare tanta attenzione sull'Italia e sugli italiani. Io e Helena, per la prima volta ci sentivamo apprezzati da tutti: nei negozi, nei ristoranti, senza parlare delle gallerie, dove eravamo accolti come dei profeti. Insomma, noi, intendo Flash Art, era diventato un prodotto molto apprezzato del Made in Italy: dal design alla moda, al cibo, finalmente si parlava italiano. E io non mi sono mai sentito così orgoglioso di essere italiano come in quegli anni, grazie anche a questa banda di giovani artisti, messi insieme da Achille Bonito Oliva. Ricordo che un bellissimo ristorante alla moda 1/5 Restaurant (numero uno della Fifth Avenue), frequentatao anche da Andy Warhol, ci aveva concesso un credito illimitato per i pasti in cambio di pubblicità. E noi ogni sera invitavamo anche quindici venti persone (tra cui Peter Halley, Robert Longo, David Salle, Sherry Levine, Cindy Sherman, Dan Cameron, Thomas Lawson, Paul Taylor, Octavio Zaya, Nicolas Moufarrege), per cui il nostro prestigio a New York era alle stelle. Perché allora essere italiano era bello (strano a dirlo ora in cui le nostre quotazioni sono al minimo). 

Quanto durò questa gloria? Per quanti anni mi sembrò di camminare a mezz'aria per le strade di Manhattan? Per parecchi anni direi, comunque molto di più della Transavanguardia, la quale era esplosa improvvisamente ma anche velocemente entrò in un cono d'ombra da cui stenta a risollevarsi. Però debbo dire che mai nella mia vita trascorsa nell'arte ho visto affermarsi un movimento in modo così veloce e virale. Nemmeno la Pop Art che eppure fu un fulmine a ciel sereno. Ma in quei primi anni '80, tutte le gallerie e i musei del mondo, volevano esporre Chia, Cucchi, Clemente, De Maria e Paladino. 
Con la mostra di Enzo Cucchi al Guggenheim, inizia il flop della Transavanguardia

Questi ragazzi divennero famosissimi e ricchissimi in pochi anni, forse mesi. E nemmeno Picasso ebbe la loro fulminea notorietà. Ma questa attenzione iniziò presto a scemare  gradualmente. L'occasione fu la mostra di Enzo Cucchi al Guggenheim Museum: ricordo che tutti i galleristi, critici e collezionisti, aspettavano questa mostra per decretare chi fosse l'artista più importante del momento: se Enzo Cucchi o Anselm Kiefer. Tutti si aspettavano una grande retrospettiva di Enzo, con le opere più importanti, già esposte nelle gallerie e in altri musei. Insomma, gli americani aspettavano rivedere una "summa" di Enzo Cucchi per decretarne  la sua importanza mondiale. Invece cosa accade? In quella occasione seminale, Enzo Cucchi si mise a fare l'italiano. Invece di presentare una sua mostra antologica presentò 200 disegni collocati lungo le rampe del Guggenheim, dove agli inizi c'era Barbara Gladstone, in quel momento rappresentante di Cucchi negli USA a raccogliere le prenotazioni dei collezionisti che volevano acquistare un disegno. Credo che Barbara ed Enzo incassarono una bella cifra, ma da quel momento iniziò il disinteresse per Enzo Cucchi e la Transavanguardia negli USA. Gli americani non apprezzarono il gesto esibizionistico di Enzo Cucchi che si era preso gioco del sistema dell'arte. Mentre in quel periodo di generale disinteresse per la Transavanguardia ma anche dei Neoespressionisti tedeschi, l'interesse per Julian Schnabel ebbe un leggero appannamento, ma lui, intelligente e ambizioso, si dedicò al cinema, da cui ha avuto risultati direi più che egregi. E l'interesse (e i prezzi) per le sue opere è restato invariato. Ma allora a New York era svanito l'interesse per la pittura figurativa, dopo il collasso della Transavanguardia e del Neospressionismo tedesco? Niente affatto. Da un'area depressa di Manhattan, l'East Village, si stava preparando una sorpresa. Ma di cui parleremo nella prossima puntata.

Contributi
Massimo Minini: sale e pepe nell'arte con l'affaire De Dominicis

Giancarlo,
un po di pepe è entrato nel mondo dell'arte poco fa. L'Affaire De Dominicis. Interessante episodio. Come tutti sanno M.M. è una nota falsaria gia condannata per contraffazione di opere di Vanessa Beecroft. Lo so perché sono stato piu volte chiamato in varie procure per riconoscere o meno opere pretese di Vanessa, completamente ciucche. Ora che una come lei faccia nientepopodimeno che la presidente di una fondazione intitolata al Gino mi pare enorme. Io potrei mettere su una intitolata a Tiziano Vecellio e magari far dipingere qualche quadretto? Sgarbi per me non è colpevole, non è responsabile, soprattutto perché è irresponsabile. Grande e simpatico a volte, iracondo sotto i riflettori, delizioso da vicino, sa riconoscere l'autore di una media crosta del settecento, straordinari. Invece dal 1901 in poi non li capisce, non  gli piacciono. Poco male. Ma non può quindi rilasciare autentiche. Sarebbe come se io rilasciassi autentiche di Alvise Vivarini. Si metterebbero a ridere tutti. Comunque. La storia dell'arte recente e del gallerismo italiano è molto particolare. Ci sono aspetti curiosi. Perché non ne scrivi una? Ti do una traccia se vorrai seguirla. Remo Pastori, il Punto. Pascali, Medea. Luigi de Ambrogi, Masnata Bertesca Genova Adesso anche Pio, finora mondo. Inga Pin che ne ha fatte di orbe, da me i carabinieri varie volte per verifica. E naturalmente altri ma non possiamo farci troppi nemici. Che ne dici? Io penso che sarebbe più divertente che non certe storie serie che conosciamo ma che in fondo annoiano. Il genio italico si manifesta anche cosi, non solo con Totò che vende il Colosseo agli americani.
Massimo Minini

Difendo Remo Pastori, Masnata, De Ambrogi e Pio Monti
Caro Massimo,
perché non la scrivi tu "la vita e malavita di alcuni personaggi dell'arte"? Certe storie le conosci certamente meglio di me. Io ne ho avuti abbastanza di processi per diffamazione (tutti stupidi e molti persi per ignoranza dei giudici e incapacità di un avvocato amico di giovinezza). Debbo ancora terminare di saldare la parcella (esagerata) di uno di questi amici che si era offerto di difendermi gratis per un articolo scritto da Getulio Alviani e che secondo il Tribunale di Bologna, avrebbe diffamato una galleria locale. E poi io non sono moralista come pretendi di essere tu: difendo a spada tratta Luciano Inga-Pin, qualunque cosa abbia fatto. Visto che è morto in solitudine e assoluta povertà, con funerali a carico del comune di Milano. E ricordo le sue bellissime mostre di Marina Abramovic, Gina Pane, Vanessa Beecroft che nessuno voleva realizzare. Cosa chiedere di più a un gallerista. E difendo Remo Pastori, gallerista inimitabile, per classe e occhio, che toglieva ai ricchi (collezionisti) per dare ai poveri (artisti). Morto povero in canna anche lui, ma occhio lungo e raffinato, quando voleva. Lucio Fontana lo adorava e me ne parlava con un entusiasmso straripante. Pescali si occupava di altro rispetto a ciò che interessava me, dunque l'ho solo incrociato per qualche battuta di cattivo gusto. La sua mancanza di stile mi irritava. Di Francesco Masnata ricordo le esemplari (mai più ripetute da nessuna galleria) mostre di Alighiero Boetti o Emilio Prini o Michelangelo Pistoletto e poi la memorabile e inimitabile mostra dell'Arte Povera e Im Spazio, la prima in Italia, che solo un visionario come Masnata avrebbe potuto sponsorizzare. Quale altro gallerista è riuscito a fare altrettanto? Il resto l'ho dimenticato. Di Luigi De Ambrogi invece ricordo una splendida mostra di Pierpaolo Calzolari e la primissima (molto particolare e direi la migliore sua in assoluto) di Enzo Cucchi. Pio Monti, mio fratello e quasi conterraneo, è stato il vero e solo gallerista di Gino De Dominicis. Per oltre una decade Gino è vissuto grazie alla generosità di Pio Monti. Lui è il vero e grande esperto di Gino De Dominicis, non gli altri che lo hanno appena conosciuto o frequentato al ristorante per servilismo e sforzandosi di ridere ascoltando le solite battute di Gino. Pio Monti, quando tu non ti occupavi ancora d'arte, ha portato a Brescia L'Ebrea, di Fabio Mauri, Albers, Vasarely, ecc. E' stato lui che ha venduto a Carlo Catellani la famosa Mozzarella in carrozza. Le autentiche? Chiunque può esprimere un proprio  parere su un'opera d'arte. Poi sarà il mercato e il sistema dell'arte a decidere se accettarne o meno l'autorità. Non vorrei qui tornare a parlare degli archivi legali e legalizzati, e tu lo sai bene, al cui confronto Sgarbi, Pio Monti e M.M. sono delle mammolette. Lì sono girati veramente miliardi (di euro) a causa dalla stupidità delle leggi e delle genti (di tutto il mondo) che concedono il diritto a degli incompetenti di rilasciare autentiche. E ai collezionisti di far finta di crederci.


Una "diffida" dell'Avvocato dell'Archivio Alviani
Pregevole Direttore Giancarlo Politi,
Con due successivi articoli pubblicati sul periodico bisettimanale online FLASH ART iscritto nel Registro della Stampa del Tribunale di Milano al n. 457 del 2008 titolati "Amarcord" e datati 22.06.18 e 04.12.18 Lei ha diffuso notizie non vere e chiaramente diffamatorie del diritto all'immagine, al nome ed alla dignità del Maestro Getulio Alviani, tanto più gravi perché espressi dopo la sua morte.
In vita il Maestro mai Lei si è permesso di mettere insieme notizie verosimili infarcite di falsità e di offese gratuite o di richiedergli opere d'arte.
Venendo a mancare il Maestro - con una consuetudine che occupa uguale da secoli gli eredi del notabile del paese come quelli del grande artista- qualcuno, magari tra quelli che lui ha più sostenuto economicamente e professionalmente, ha dimenticano ciò che doveva e si è riscoperto creditore.
Il Maestro da "grande anticipatore" (è una Sua citazione) aveva previsto tutto ed ha sempre scritto di ciò che dava (ed è davvero tanto), del poco che riceveva e delle persone a lui più vicine, delle quali dava sempre giudizi schietti ed inappellabili.
Chi riesce a guardare la Luna e non il dito sfogliando pagine di fogli di calendario, volantini pubblicitari e lettere vergati sul retro dal Maestro sa che tale riciclo non era dettato da "incallita avarizia" (è sempre Lei), ma dalla lucida volontà di dare ad ogni appunto una traccia temporale, anche per fornire a chi gli sarebbe succeduto gli strumenti per affermare la sua volontà post mortem.
L'Archivio, anche grazie a tale documentazione autografa, sta provvedendo e provvederà nel futuro a tutelare l'onore e la reputazione del Maestro nei confronti di chiunque ne diffami, ingiuri o offenda la memoria. L'episodio che Lei descrive nel Suo ultimo articolo quando, da Direttore di Questa Rivista, "per gioco" ha modificato nel senso diametralmente opposto e poi pubblicato un articolo scritto dal Maestro e la circostanza che ancora oggi Lei non si capaciti del perché il Maestro non avesse soprasseduto "allo scherzo", dice tanto sulle differenze -che anche i Suoi lettori potranno cogliere- tra Lei ed il Maestro Getulio Alviani, che, per inciso, è stato Direttore Artistico dell'AVE, non della BTICINO.
Con la presente si formula espressa diffida a non proseguire con l'attività lesiva e diffamatoria che, con articoli a Sua firma sulla rivista online FLASH ART, sta perpetrando all'evidente scopo di ledere l'immagine, il nome e la dignità del Maestro Getulio Alviani. Si chiede, inoltre, ai sensi dell'art. 8 Legge n. 47 del 1948 di pubblicare le presenti dichiarazioni in testa di pagina della rivista online FLASH ART nella loro interezza.
Si diffida, infine, dall'utilizzo di foto del Maestro Getulio Alviani e delle sue opere in violazione delle regole sul copyright.
Distinti Saluti
Avv. Paolo Riscica per Archivio Getulio Alviani, via Fauchè 1 - Milano 

Su Alviani nessuno può insegnarmi nulla
Caro Avvocato, 
non so se lei abbia conosciuto Getulio Alviani, ma non mi sembra. Gli è stato raccontato da persone a lui vicine e che lui detestava. Invece pochi (forse nessuno) lo ha conosciuto bene quanto me. L'ho frequentato dal 1964, ininterrottamente. Abbiamo percorso tutta l'Europa in macchina per visitare i suoi artisti, siamo andati tre volte a New York (io l'ho condotto a New Haven, da Albers che avevo conosciuto prima di lui), è stato con me e mio ospite, a Trevi in Umbria,  almeno un centinaio di volte. E' vissuto qui a casa mia, in Viale Stelvio, dopo la morte di Anna Palange, forse per un paio di anni. E quando non dormiva da me, con Anna o da solo, un giorno si e uno no, veniva a pranzo o a cena. Dunque su Getulio non mi deve insegnare nulla. Né lei né altri. Non è stato un amico, ma un fratello, un padre e talvolta un figlio, anche se ho evidenziato alcune sue caratteristiche (e lui faceva lo stesso su di me) che lo rendevano speciale. E non mi ha mai sostenuto economicamente né professionalmente. Sul piano economico è sempre stato (piacevolmente) a mio carico, su quello professionale Getulio era un totale sprovveduto su tutto ciò di cui mi occupavo (eccetto sull'arte cinetica, come ho scritto, su cui era incomparabile). Circa le mie due opere prestategli (un Morellet con etichetta Arte Invernizzi, e Camargo) per una mostra, ci metto una croce sopra. Ma altri non faranno come me. E sullo scherzo del mio testo alterato sulla Transavanguardia, poi alla fine, dopo una sua sfuriata, ci abbiamo riso insieme. A Getulio piaceva molto essere protagonista: quando era da me, se c'erano altre persone che lo oscuravano, lui si sentiva frustrato e si ritirava in silenzio in un angolo. Io sto difendendo la memoria dell'artista Alviani come forse nessuno, mentre da altre parti, per incompetenza, ignoranza e desiderio di protagonismo, lo si sta affossando. Ma io difenderò l'artista Alviani (e l'amico Getulio, con tutte le sue intemperanze che lo rendevano unico) sino a che potrò. E tutto ciò che ho scritto è pura verità, scaturita dal mio rapporto speciale con Getulio. L'unica cosa imprecisa che ho scritto (e che lei mi fa notare) è che lui era consulente della Bticino e invece lei mi dice di AVE. Le sembra un errore questo o un pretesto? In quanto all'uso delle foto di Alviani, il diritto di riproduzione appartiene ai fotografi e nel mio caso all'Archivio Germana Marucelli e Pio Monti. Per il diritto di copyright mi dovrebbe dimostrare che questo diritto appartiene all'Archivio Getulio Alviani e non invece agli eredi legittimi. Cioè alla famiglia. Ma su questo avremo il tempo e le opportunità di discutere. Un'ultima cosa: il mio Amarcord è una sorta di blog personale e non riguarda Flash Art. Tutto ciò che scrivo ricade sotto la mia responsabilità e non quella di Flash Art.

Salvatore Siena
Grazie Giancarlo, che bello leggere del caro Getulio.
Purtroppo l'avevo perso perché era rimasto avviluppato in una rete di ammaliatori con i quali non avevo nessuna sintonia. E' così no? La notizia della sua morte mi è arrivata poi dai giornali e dalla sorella Rita. Ora le tue parole che ho stampato e che terrò in ricordo mi hanno fatto ricordare Getulio cui voglio bene.
Qui in Ospedale Niguarda rimane l'Aula Anna Palange e se dovessi riscrivere un'altra biografia di Getulio magari puoi ricordarlo. Ciao, Salvatore Siena, Direttore Reparto Oncologia, Ospedale Niguarda, Milano.

Il tentativo di affossare un grande artista
Caro Salvatore,
gli ammaliatori avevano convinto Getulio che al Niguarda lo si stava uccidendo. Me lo disse lui stesso, parlandomi di un medico che lo aveva preso in cura, come di un Gesù Cristo che compiva miracoli. Invece voi stavate solo cercando di salvarlo. Cosa che non hanno fatto altri, isolandolo da tutti: isolamento che Getulio soffrì più della sua malattia. E alle mie insistenti richieste di vederlo, mi si rispondeva che Getulio stava bene e che aveva solo bisogno di riposo. Mi fu permesso di vederlo solo in coma, due giorni prima della sua morte. E ora, persone presuntuose e incompetenti, ne stanno affossando l'opera. La sola vestigia resterà forse la bella Aula Anna Palange nel tuo reparto al Niguarda. Ma a volte questa è la vita. L'Italia è il paese che premia sempre i criminali e gli incapaci. Lo diceva sempre anche Getulio.


Fausta Squatriti: un altro Amarcord su Getulio Alviani
Caro Giancarlo, 
a parlare di Getulio, non si smette mai. Ho letto quanto tu ne hai scritto, con la tua capacità di analisi, di ironia, e di affetto. Tutti ci siamo lasciati affascinare da lui, bugiardo, avaro e poi generoso, a suo modo, pazzo. Ho sempre frequentato gli artisti che erano per età ed esperienza, più grandi di me, da loro ho imparato tanto, a partire da Fontana, al quale va sempre il mio pensiero, e ho capito  che spesso quelli che  hanno professato un'arte esatta, che vuole e può dare un'idea di una mente organizzata per risultati che esaltino il lato razionale, ma anche poetico, sono, nella loro vita privata, i più complessi, i più - surreali - , i più imprevedibili. Penso a Max Bill, che quando è morta sua  moglie, cadendo da un basso gradino in un albergo di Bologna, al telefono mi ha detto: la mia vita è finita. Ha portato il corpo della moglie in Svizzera, in modo clandestino, così mi diceva Getulio, ma non ne sono sicura. So che nel giardino della bellissima villa di Zumikon, in un muro, Bill ha  tumulato le ceneri della moglie, che si vestiva alla giapponese, ma non lo era. Dopo averla onorata con il suo dolore, è partito con la sua amante storica per un viaggio, credo che lei si chiamasse Angela Thomas. E che dire di Lohse che quando andavo a Zurigo, spesso con Getulio, mi obbligava, quasi, a bere vino rosso alle undici di mattina, per poterlo bere lui, cui la severissima Frau Lohse non lo avrebbe permesso, senza credere fossi io a volerlo? E Almir Mavignier, brasiliano naturalizzato tedesco, che nel rigore di una vita famigliare alla tedesca aveva inquadrato la sua mente, e il suo lavoro, per ottenere quei risultati che necessitavano di un rigore che nel profondo non gli apparteneva? Con Almir, simpaticissimo,  ho realizzato due serigrafie bellissime, con grande fatica, per il porfolio che avevo creato,  EXACTA, nel quale sono riuniti 27 artisti tra i più importanti della ricerca esatta internazionale, ma avevo  rinunciato a fare altre grafiche, perché mi faceva sempre tante difficoltà, che alla fine, rimanendo amici, gli ho detto che non avrei fatto prove e nuove prove, all'infinito. 
Artisti come Man Ray, Max Ernst, Dorotea Thanning, o come Tinguely e Niki de Saint Phalle, che nel lavoro erano irrazionali, nella vita erano saggi, (con riserva) affidabili, e sono stati amici straordinari con i quali tutto avveniva nell'ambito di una certa razionalità.
Inevitabile, per scrivere di Getulio, toccare i lembi delle sue passioni, ma torno a lui, alle storie che mi aveva raccontato, molto diverse da quelle che leggo nel tuo scritto, chissà cosa è la verità?
Getulio, con molta reticenza, a proposito della sua infanzia, e dicendomene il volto gli si oscurava, velato da un profondo dolore, mi raccontava di essere stato dato agli zii ricchi e senza figli, per essere allevato da loro, e che da bambino soffriva di non stare con i due fratelli e la madre. Diceva, a mezza voce, che la madre, poverissima, in qualche modo, per riconoscenza verso gli zii, rendeva loro dei servigi domestici. Quanto al padre, che era dei dintorni di Napoli, non diceva molto, non lo vedeva mai e, forse, si occupava di traduzioni. Il ricordo del padre, era quello di un calcio dato al teatrino con cui Getulio giocava solo, perché aveva preso un brutto voto a scuola. Gli zii, adoravano il bambino, che chiamavano Ninin, lo portavano al mare, a Lignano Sabbiadoro, ma per paura che annegasse, gli permettevano soltanto di bagnare i piedi nell'acqua. Infatti ero stata io a insegnargli a nuotare, quel poco, ma in acqua fonda non si azzardava, mi aveva in seguito raccontato che stava per annegare, e che il figlio di Paolo Seno lo aveva salvato.
La vita nella villa degli zii, affacciata sud di una strada di terra battuta che in estate una autobotte passava a bagnare, seguiva dei rituali cui il bambino era stato educato. Al ritorno dello zio, Ninin doveva porgergli le pantofole, prendere le scarpe e pulirle, riporle nella apposita rastrelliera, e se aveva piovuto, asciugare anche la bicicletta, lucidandone le parti cromate. Ma quanto più mi stupiva dei suoi racconti era l'abitudine di ricoprire, in inverno, il pavimento della villa con un secondo pavimento di legno, che avrebbe preservato dal freddo le stanze. Questo pavimento in primavera lo si toglieva, un traffico non indifferente, ma io gli credevo, perché inventarsi una storia così, mi pareva difficilissimo. Nel giardino c'erano dei girasole, o altri fiori, che lui diceva di dovere innaffiare dall'alto, dal balcone, con un pesante annaffiatoio, che distribuiva l'acqua a pioggia. E poi, le sere si passavano con lo zio a contare i soldi dell'incasso giornaliero, separando i vari tagli accuratamente, facendone dei mucchietti, e poi contandoli.  Getulio, che adorava lo zio, credendolo infallibile, da bambino veniva mandato a giocare per lui la schedina del totocalcio. Diceva Getulio di essere stato convinto che lo zio, infallibile, avrebbe vinto, ma trovando il vincere del denaro, immorale, cambiava tutti i risultati, e infatti lo zio non aveva mai vinto. Credergli? Se si era inventato tutto, aveva in se stesso anche la vena del narratore. Nei primissimi anni '60, con Sergio Tosi cominciavamo alla creazione  di  edizioni numerate, cartelle di grafiche e multipli, i primi ad essere creati in Italia, e non solo. Gli artisti con cui abbiamo fatto le edizioni erano Fontana, Twombly, Pol Bury, Soto, tanto per fare alcuni nomi, e anche Getulio, che avevo conosciuto al Naviglio, dove un suo bellissimo pavimento dava luce e spazio alla piccola galleria di via Manzoni. 
Lo avevo invitato a venirmi a trovare, e diventammo amici. Lui veniva da Udine con la Porsche bianca, in poche ore, diceva di guidare con il finestrino aperto, e di fare segno con la mano che lo si lasciasse passare. Veniva a trovarci, in viale Montello 8, parlavamo d'arte, di edizioni, abbiamo realizzato una sua piramide, ma solo in pochi esemplari, era molto complicato farne una serie, e quella edizione non la avevamo mai completata, purtroppo. Spesso era accompagnato da Marina Apollonio, che Umbro credeva si sarebbe sposata con il Get, ma così non è stato, provocando una momentanea incomprensione tra lui e Umbro. Altre volte veniva accompagnato da suo fratello, con il quale poi aveva litigato, non vedendolo per anni. 
Dopo la sosta da noi, Getulio andava da Cardazzo nel tentativo di farsi pagare. Quando ci riusciva, ripassava da noi con l'assegno, piccole cifre, e noi gli davamo i contanti, che, diceva, gli sarebbero serviti per la benzina. Nel '68, credo, aveva un motoscafo ormeggiato nel canale della Giudecca, durante la Biennale, e ci aveva invitati per fare un giro in laguna. In effetti, non è mai stato possibile stabilire di cosa vivesse, se fosse ricco o povero, ma di certo non ha mai avuto un lavoro parallelo a quello di artista.
Quando, negli anni '70, ci siamo innamorati, lui era in disgrazia, come artista, le sue opere costavano pochissimo, ma era stato capace di infondermi una grande energia, aiutandomi ad uscire da situazioni personali che mi avevano annientata. La nostra vicenda è stata complessa, e non è qui il caso di raccontarla. Ma sia pure a intervalli anche lunghi, siamo sempre stati in contatto, e una certa complicità non è mai mancata. Però, mi ha fatto degli scherzi atroci, di cattiveria profonda, di vendetta, che non dovrei riuscire a perdonare, eppure lo faccio, perché metto sul piatto della bilancia, tutto il resto, i viaggi, il lavoro fatto insieme, le risate, la sua cortesia con i miei genitori, fino ad un certo momento quando, andando in Venezuela, e innamoratosi di Gloria Carnevali, mi ha lasciata sola a terminare EXACTA, cosa che ho fatto. Di Gloria gli avevo detto: attento, che non tutti i carnevali finiscono in gloria, e così era stata. Lui apprezzava il mio humor, ma lo irritava anche, perché lo mettevo sempre con le spalle al muro. Ero stata io a suggerire a Soto di affidare a Getulio la direzione del Museo di Ciudad Bolivar, e l'idea si era rivelata pessima, perché ha portato a litigi e scene delle  quali non ho capito la verità, ma conoscendo Soto come un uomo generoso e onesto, propendo per credere che fosse lui ad avere ragione. Di quanto mi raccontava Getulio, emergeva una sua follia, che invano avevo cercato di sistemare. Credo che, come tutti i bugiardi, alla fine, non si sia ritrovato tra le sue stesse, multiple verità, entrando veramente in una spirale di follia.
Mi aveva regalato un grande suo lavoro, bellissimo, che non gli ho mai prestato per le mostre che mi diceva di dovere fare, sapevo che non lo avrei più rivisto. Per la mostra di Bergamo, ho domandato a Giacinto di venire a prenderlo lui, e di riportarmelo lui, e così è stato. Mi ha sottratto altre opere, chieste per fantomatiche mostre, a volte mi sfinivo nel dovergliele chiedere indietro, e poi sono rimaste a lui. Gli avevo lasciato le chiavi di casa, ma ho poi dovuto chiedergliele, per ragioni che non posso e non voglio raccontare. Il suo amore per Anna Palange  è stata l'occasione per comportarsi bene, nell'ultimo anno della terribile malattia di Anna. C'ero anche io, tra i tanti che passavano la giornata alla clinica dove Anna, giovane, viveva una agonia lunga, un incubo che spesso rivivo. Lui, allora, aveva  bisogno anche di me. E' toccato a me dirgli di smetterla di ingozzarla con il semolino, perché Anna stava morendo. Sono stata io a guidare  la mano di Anna, per farle firmare l'atto di matrimonio del quale hai scritto già. Però, il matrimonio è stato civile, c'erano due consiglieri del Comune di Milano, con la fascia tricolore, non c'era il cappellano. 
Un abbraccio, 
Fausta


Alessandro Crisci: Amarcord tristissimo su Alviani
Buonasera, sono Alessandro Crisci e nel 2008, grazie alla famiglia Seno, e in particolare modo all'amicizia di Gabriele ho avuto il privilegio di conoscere Get, e lo ho frequentato  sia per motivi di lavoro che di svago. Il mio lavoro si svolge nell'edilizia da 29 anni, e con uno dei miei mezzi furgonati, consegnavo per conto di Get le sue opere chiuse in casse di legno. In seguito a questo è poi nata una grande amicizia con Get,.... mi aveva preso a cuore! Nel 2014, per uno mio errore nei confronti della società, finisco in carcere, dal 2014 fino al gennaio 2018, sono stato recluso a Opera. In questi quattro anni e dieci mesi di reclusione, ho ricevuto da Get una meravigliosa corrispondenza di 45 lettere. Get, mi stupiva in continuazione con le sue lettere, perché, su ogni lettera ricevuta sulla busta a fianco al francobollo mi metteva sempre una foto di una  bellissima donna, poi la cosa veramente affascinante era che la buste delle lettere che ricevevo da lui, erano le mie che gli spedivo, in quanto Get  le girava al contrario, con cura le incollava e me le rispediva . Quando le  aprivo  mi accorgevo che  all'interno della busta, il mittente e il destinatario erano state  scritte  da me o da qualcun altro che gli aveva scritto. Get mi teneva al corrente di ciò che gli  succedeva nella sua vita quotidiana, ed io lo tenevo informato di ciò che mi succedeva in carcere, anche perché era la prima volta che varcavo la porta del riformatorio Get mi scrisse che la sofferenza può anche portare a gesti estremi e che per evitare questo, dovevo impegnare il tempo che avevo a disposizione studiando. Mi  fece arrivare tramite colloquio molti  libri - ne accenno solo alcuni - Lucio Fontana, Capogrossi, Victor Vasarely, Josef Albers, Max Bill, Arte Cinetica, Hans Hartung, Julio Le Parc e 15 inserti di Flash Art, di cui uno in particolare il N. 315 del 2014 , in cui c'era un'intervista fatta a Getulio sulla vita di Julio Le Parc. Dentro uno di questi libri mi lasciò un biglietto scritto con queste parole :  
  "Attraverso l'arte, che è simbolica di tutto, si può capire tutto oltre a questo il grande pregio dell'arte (anche quella cattiva ) e capire, capire, capire, non smetterò mai di dirtelo e cerca di farlo anche tu;  da una parte ti sentirai LIBERO; dall'altra entrerai nella profondità delle cose." 
E cosi feci. Ora voglio parlare delle  ultime 10 lettere che ho ricevuto da Get, precisamente dal 01/01/2017 al  01/11/2017, faccio un piccolo riassunto. In questo lungo  periodo Get mi scriveva  che era malatissimo e che da gennaio 2017 viveva tra ospedali ed era iniziato il calvario della sofferenza. Il Niguarda gli aveva provocato una infezione per la quale per tre settimane ha avuto 24 ore su 24 flebo di antibiotici.
Poi lo portarono in una clinica, La Columbus, dove aveva incontrato un dottore, che ha fatto l'impossibile per salvarlo. Mi fermo qua, perché, Get in quei mesi stava veramente male in quanto era  giorno e notte sotto terapia, e io, me ne accorgevo anche dalla calligrafia delle lettere che mi arrivavano (quelle da agosto 2017 in poi) la linea precisa della sua grafia era diventata molto tremolante e il  contenuto delle lettere, molte, era senza senso. Però mi voglio soffermare su alcuni punti, nelle ultime 10 lettere che ho ricevuto da Get nel finale delle lettera mi scriveva sempre queste parole: "quando esci dal carcere !!!!", era come se cercasse protezione / aiuto da me. In una lettera di settembre 2017 mi scrisse che non riceveva più lettere da nessuno, lui aveva scritto a me da Firenze, da Roma, dalla Svizzera, da Milano, ma non gli era arrivato nulla di risposta da me, nonostante io puntualmente rispondevo ad ogni sua lettera; sembrava come se qualcuno stesse bloccando la nostra corrispondenza o qualcos'altro, perchè sapeva che Get stava morendo, per allontanare tutte le persone che conoscevano Get. Anche i cellulari da cui Get non si separava mai, risultano improvvisamente spenti dal 16 settembre 2017, insomma lo avevano emarginato e messo in una campana di vetro/sequestrato, mi chiedo come mai questo accanimento da parte della sua ex compagna di non far più salutare a nessuno il povero Get?. 

Esco dal carcere 11/01/ 2018, e dopo tre settimane decido di andare a trovare Get all'ospedale, chiamo la sua ex compagna e Le chiedo  gentilmente se potevo andare a  trovare  Get all'ospedale, mi dice che posso andare, ma non dovevo dire a nessuno l'ospedale dove era ricoverato Get, specialmente alla famiglia Seno,  io non capivo il motivo in quel momento ma accettai. 
Il giorno 17/02/2018 vado all'ospedale a trovare Get, nella stanza c'era il fratello della sua ex fidanzata, mi presento e mi giro verso il lettino di Get, rimasi traumatizzato nel vedere Get in quelle condizioni, purtroppo era in fase terminale, non era più cosciente e non so neanche se mi ha riconosciuto.
Ho scattato una foto a Get l'ho salutato con un bacio e me ne sono andato piangendo.
Io sapevo che la ex compagna di Get ultimamente non andava d'accordo con Gabriele Seno, cosi decisi di andare dalla mamma di Gabriele e mostrare la foto delle condizioni di vita di Get, come vide la foto si mise a piangere dicendomi perché non ci ha avvisato e non ci ha chiamato per farcelo salutare...??
Chiamai la ex compagna di Get e gli dissi che avevo detto alla  mamma di Gabriele dove era ricoverato Get, ora non scrivo tutte le offese e le  parolacce e gli insulti che ho ricevuto da quella donna, mi ha spaventato davvero. Non contenta, visto che non rispondevo alle sue chiamate, mi ha lasciato un messaggio in segreteria telefonica bruttissimo, insultando pesantemente con minacce me e la famiglia Seno. io lo ho archiviato e tutt'ora oggi lo conservo. 
Finisco questa lettera con un mio pensiero: oggi capisco perché questa donna aveva premeditato ed emarginato Get da tutti nel periodo finale della sua vita: non voleva interferenze nel testamento scritto nel 2011

Luciano Marucci
Caro Giancarlo,
il dettagliato ritratto di Getulio – del quale avevamo parlato anche a Basilea – nell'ultimo "Amarcord" è realistico e permette di capire meglio la sua controversa personalità. Con me, nei tanti anni che l'ho frequentato, si è comportato sempre da vero amico. E risento ancora la sua voce quando descriveva il male che lo aveva colpito, le sofferenze, le rinunce e le speranze, finché ha avuto la forza di rispondere  al cellulare. Allora preferisco ricordarlo come un uomo generoso, molto appassionato e competente di Arte Cinetica e Programmata, estremamente rigoroso in quella di indubbia qualità da lui prodotta e in tutte le altre attività, come pure tu hai sottolineato. Era così presente, anche attraverso la sua vis polemica contro il sistema, per cui stento a credere che sia scomparso per sempre. Il tuo racconto lo fa rivivere un po' fra noi, energico, razionale e anarchico, proprio come lo abbiamo conosciuto e spesso condiviso.
Un caro saluto.
Luciano Marucci

Premio Marzotto
Caro Giancarlo, 
probabilmente hai ragione tu: come l'Araba Fenice del mito l'arte risorge sempre, o, meglio come dicevano i filosofi greci: "Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma", e l'arte oggi può essere nel premio Marzotto alle Startup. Ricordo di Benedetto Croce citato in un articolo dove si diceva che sostenesse che in tutte le discipline c'è arte e creatività pena lo sviluppo delle attività stesse. Del Premio Marzotto che ebbi modo di conoscere grazie all'amico mentore Berto Morucchio, segretario del Premio Marzotto per 3 edizioni, so che era biennale e con a capo Pierre Restany  e grazie a lui si ebbe a Valdagno il fior fiore dell'arte Europea dal 1958 al 1968, mentre prima 1951-1958 era Nazionale. Ebbi modo di lavorare al Premio dei 150 anni dell'azienda, sotto la guida del Conte Paolo Marzotto con Virginia Baradel e Flavio Albanese nell'anno 1986 e così appresi de visu la pittura europea con opere di grande qualità. So, poi, che diversi miei conoscenti chiesero al Conte Paolo di riprenderlo e mi fa piacere che si sia trasormato in altro. Anche se mi resta la nostalgia per quelle forma di premio che per l'Italia ha significato molto. Abbraccio. Boris

Non è più tempo di nostalgie
Caro Boris,
non è più tempo di nostalgie. Bisogna prendere atto che il mondo che abbiamo conosciuto si è trasformato insieme all'arte e alla nostra giovinezza. Quant'è bella giovinezza che si fugge tuttavia, diceva Lorenzo de' Medici (chissà poi se l'ha scritta proprio lui e non qualche ghostwriter alla sua corte, questa bellissima poesia) e, obtorto collo, dobbiamo dirlo anche noi. Credo fermamente, ad osservare il triste panorama nazionale e non solo, che la creatività in arte si sia fermata ad Eboli. Ora vedo solo un deserto immenso, popolato da gnomi. L'ultimo artista di rilievo che ho conosciuto è Francesco Vezzoli. Poi più nulla. Colpa della mia miopia o dell'appiattimento generale?

Assolto da tutti i miei peccati
Caro Politi,
questa bellissima frase "L'Italia è un paese non sufficientemente disperato per ritrovarsi nella poesia" ti assolve da tutti i tuoi "peccati" culturali.


 Flash Art Italia
Via Carlo Farini 68, 
20159, Milano 
+39 02 688 7341

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