È stata certamente la più brutta mostra curata da
Francesco Bonami (in condivisione con la sua collaboratrice in quell’occasione,
la pur brava in altre circostanze Paola Nicolin). O una delle più brutte, non
avendo forse viste tutte le mostre curate da Bonami, soprattutto negli USA.
Ma Milano anni 70, resterà certamente un neo
(almeno tra gli addetti ai lavori con la memoria più lunga e informata,
anche se ormai quasi tutti estinti, per cui si può dire, scrivere e fare di
tutto e il suo contrario, tanto la Storia è diventata una pattumiera di fake
news) nella splendida carriera curatoriale di Francesco Bonami. Ricordo che mi
aggiravo tra le sale di Palazzo Reale e mi dicevo: ma questa non è la Milano
degli anni ’70 che io ho vissuto intensamente, frequentando i protagonisti di
quel decennio, Franco Toselli, Françoise Lambert, Beatrice Monti, Salvatore
Ala, Bruna Soletti con L’Uomo e l’Arte, dalla vita breve ma
intensa. E anche la fragile Maddalena Carioni, interprete di una Milano meno
fragorosa ma altrettanto spumeggiante, con Trotta, Tonello, Jasci. E
sempre con l’ombra maieutica di Luciano Fabro incombente. E la silenziosa ma
intelligente Paola Betti. Ma soprattutto con il suo inflessibile e selettivo
interprete, Giorgio Colombo, il grande occhio critico dell’arte che grazie alla
sua implacabile Leica ha cercato di salvare la memoria di quegli anni
incredibili che oggi possiamo rivisitare. Ricordo invece (volutamente?)
distrutto da due non testimoni e interpreti un po’ superficiali, come
appunto Francesco Bonami e Paola Nicolin, quell’incredibile decennio che va dal
1969 al 1979. E vi posso assicurare che negli anni ’70 Milano era, forse
insieme a Düsseldorf e in parte Amsterdam, la grande capitale
dell’arte internazionale, luogo di incontro e di speranza dei
grandi protagonisti o che volevano diventare tali, siano essi stati
artisti o galleristi o i rari collezionisti. Per gli appassionati
d’arte Milano era un nodo cruciale, come d’altra parte lo era Roma con le
gallerie L’Attico di Sargentini, La Salita e Arco d’Alibert di
Mara Coccia e più tardi Pio Monti, e anche Bari,
attivissima, grazie alla infaticabile Marilena Bonomo. Per
non parlare di Torino, grande germinatore e seminatore di fermenti
con Sperone, insuperato importatore di avanguardie americane,
la Christian Stein, inappuntabile testimone e supporter dell’Arte Povera
ma anche la tumultuosa Galleria Il Punto, un porto di mare,
vivace, divertente, dissennata, condotta da un mitico e paradossale Remo
Pastori amico di Lucio Fontana, di Mario Schifano e di Pietro Gallina ma
grande sostenitore di tutti gli artisti propositivi che ricopriva di vestiti e
di promesse. Ecco, io direi che gli anni ’70 più propositivi in Italia non
si possono individuare in una sola città. È vero che Milano fu vivissima, il
centro di smistamento di idee e di opere con l’Europa e gli USA, certamente la
città più dinamica e generosa, dove arrivavano i protagonisti dell’arte
per portare e prendere idee, ma si dovrebbe parlare di "Italia anni
70", allargata appunto a Roma, Bari, Torino, Genova
dapprima con la mitica (per alcuni anni) La Bertesca poi
con la Galleria Forma senza dimenticare l’attivissima Pescara,
con Lucrezia De Domizio, Mario Pieroni e poi il
superdinamico Cesare Manzo. Anche Firenze, malgrado la faziosità e ostilità
generale imperante dai tempi di Dante, fu un forte centro propulsore con
il Centro DI, la Galleria Schema (del
troppo dimenticato artista-gallerista Alberto Moretti), lo spazio
autogestito Zona, Villa Romana e art/tapes/22 di
Maria Gloria Bicocchi e la rivista Westuff di
Maria Luisa Frisa. Già anticipatrice della fluidità e dei transgender
culturali.
Giuseppe Panza e Hanne Darboven 1972 © ph. Giorgio Colombo, Milano La copertina del ibro di Celant sulle gallerie Toselli
Erano i tempi in cui a Milano incontravi artisti come Richard Serra, Sol LeWitt, Joseph Kosuth, Lawrence Weiner, John Baldessari, Joan Jonas, Hanne Darboven, Mel Bochner, Richard Tuttle, Luciano Fabro, Alighiero Boetti, Michelangelo Pistoletto, Giulio Paolini. E anche Tony Shafrazi, Gino De Dominicis, Emilio Prini e l’enigmatico Francesco Matarrese, non so se meteora o protagonista appartato che la Storia non resusciterà. E sempre presenti Vincenzo Agnetti e Luciano Fabro, grandi manovratori occulti di un loro piccolo sistema dell’arte in quella ubertosa Milano agognata da tutti gli artisti di tutto il mondo perché ospitale e generosa con tutti. A New York non eri nessuno se non avevi superato qualche buon esame di percorso a Milano, Amsterdam o Düsseldorf. Per questo Milano era molto ambita da tutti, forse la città più gettonata in Europa dagli artisti in cerca di gloria. Le gallerie Toselli, il capolavoro di Germano Celant
E l’epicentro propositivo e immaginifico di quella Milano fu indubbiamente la galleria di Franco Toselli, recentemente “immortalata” da un libro (ora attendo di vedere il libro postumo, Le Mie Mostre, suppongo altro capolavoro), certamente il più documentato, di Germano Celant, appunto Le gallerie Toselli. Non perché Toselli fosse Gagosian con decine di sedi, ma perché durante il suo percorso ha cambiato diverse location. E dove ogni sabato arrivava da Bari Angelo Baldassarre, ingegnere e costruttore edile, collezionista accanito e che prendeva il wagon-lit il venerdì sera per arrivare alle nove in galleria da Toselli, dove immancabilmente acquistava un’opera. Angelo, come la maggior parte dei collezionisti, era un malato grave d’arte. Un alcolista dell’arte, direbbe Charles Saatchi. Poi a pranzo con Franco Toselli e il pomeriggio da Françoise Lambert, altro suo riferimento. E la sera ancora il wagon-lit per essere a Bari e in famiglia la domenica e per vederlo magari passeggiare sul Lungomare. Un altro popolare personaggio dell’arte fu Duccio Soresi, generoso notaio di tutti noi, appassionato sostenitore di Alighiero Boetti con i cui enormi tappeti aveva ricoperto le pareti del suo ossequioso studio notarile. E poi Riccardo Tettamanti, silenzioso visitatore e sostenitore di tutte le gallerie propositive dell’epoca (Inga-Pin, Lambert, Apollinaire). Ma su tutti i collezionisti, quasi ombra di se stesso, dominava la figura ieratica e mitica di Giuseppe Panza di Biumo, apparentemente inaccessibile, sempre in viaggio tra Los Angeles, New York, Milano. A New York, sapendo del suo arrivo, i galleristi restavano ore sulla porta di ingresso ad attenderlo, Leo Castelli andava spesso a prelevarlo in aeroporto. Senza Panza di Biumo e Tony Shafrazi avrebbe chiuso la sua galleria, mi confessò Leo Castelli, poi vi spiegherò perché. Giuseppe Panza di Biumo fu l’antesignano del collezionista che acquistava in silenzio tutta la mostra e oltre: avrebbe acquistato anche l’anima dell’artista, se avesse potuto. Poi subito dopo di lui il grande Charles Saatchi, il gallerista guida e faro di tutti gli acquisti per circa un ventennio. Una sua attenzione o un suo giudizio facevano la fortuna o la disgrazia di un artista. Franco Toselli e sul fondo Richard Serra, 1973. Photo © Giorgio Colombo, Milano Nella Milano degli anni ’70 faceva spesso la sua comparsa affannosa ma
illuminante, soprattutto da Franco Toselli, Pio Monti, il mercante da
autogrill, che caricava la sua station wagon di quadri di ogni genere e li
disseminava nelle campagne lombarde, romagnole, pugliesi a commercianti o
piccoli imprenditori che Pio trasformava in collezionisti fanatici ed
entusiasti e che talvolta lo omaggiavano di salumi, fiaschi di vino,
prosciutti ma anche con chili di tartufo nero che poi impestavano del loro
profumo la sua macchina per giorni e giorni. Spero di trovare il desiderio e le
memorie per scrivere un Amarcord su di lui, parlando
soprattutto dei nostri tanti viaggi nel mondo insieme, perché Pio aveva una
vita immensa, generosa e misteriosa. A lui debbo il mio primo viaggio a New
York, offertomi negli anni ’60, in un volo economicissimo e tutto compreso
organizzato dall’ACI di Macerata. Un viaggio memorabile. Una
prosperosa e danarosa proprietaria di un ristorante condotto insieme al marito
a Parma, fu trasformata da Pio in una accanita sostenitrice di Gino De
Dominicis, a cui fece acquistare oltre venti opere di Gino mentre il marito
per ogni acquisto della moglie si regalava un dipinto di Guccione. Era curioso
vedere l'ampio ristorante trasformato in una galleria d’arte, con una lunga
parete dedicata a Gino De Dominicis e in corrispondenza quasi speculare vedere
altrettante opere di Guccione davanti a quelle di Gino. Un imperdibile braccio
di ferro intellettuale tra marito e moglie. E questa signora acquistava solo da
Pio, venditore porta a porta e solo Gino De Dominicis. Pio Monti è stato il
maggior sostenitore di Gino De Dominicis, dal 1968 al 1980, e il miglior
conoscitore delle sue opere, checché se ne dica o vadano dicendo gli esperti
successivi e le malelingue. Pio fu il primo e tutti quanto vennero dopo e
spesso in malo modo. I cosiddetti esperti fanno ridere davanti alla competenza
di Pio Monti su Gino De Dominicis e su Emilio Prini, altro snodo nella vita
artistico-culturale di Pio. Poi si potrà dire che il gusto di Pio Monti ha
allargato troppo le maglie e per generosità è degenerato, ma vi assicuro che
negli anni ’60-’70 aveva un occhio invidiabile. E il suo percorso lo dimostra.
Franco Toselli & Alighiero Boetti durante l'allestimento della mostra di Boetti, 1968 Foto Enrico Cattaneo
Gino De Dominicis Ritratto di Pio Monti 1972 Per tornare al libro di Germano Celant sulle
gallerie Toselli, con le sue minuziose ricostruzioni degli eventi e delle
mostre di quegli anni in tutta Italia e con le memorabili immagini di Giorgio
Colombo (e talune, ma di cui non ho l’autorizzazione a pubblicare, di Ugo
Mulas, specialmente una supersexy immagine di Carla Lonzi in minigonna e calze
a rete che porgeva la mano, per un baciamano a Luciano Fabro, nel 1969, vera
provocazione femminista dell'epoca), per me, che ho vissuto quei tempi e
frequentato quei personaggi, è un’emozione indescrivibile. Rivedere i tanti
amici perduti, Chiari, Boetti. De Dominicis, Nagasawa, Mattiacci, Nigro, John
Baldessari ecc. sfogliando questo catalogo storico, per me è una
emozione indicibile. Grazie Germano per questo regalo indelebile. Tu e
nessun altro saresti stato il solo curatore capace di ricreare lo spirito della
Milano anni ’70.
Tony Shafrazi a Milano sul set fotografico per la realizzazione del libro Moogambo edito nel 1976 da Franco Toselli (photo © Giorgio Colombo, Milano) e la copertina del libro.
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