Amarcord 25
Incontri, Ricordi, Euforie, Melanconie
di Giancarlo Politi
per intervenire, controbattere o esprimere una propria opinione scrivere a
A proposito di Amarcord
Cari amici, dall’ultimo Amarcord è passato un po’ di tempo e mi scuso. Qualcuno avrà pensato che avevo mollato. Invece mi sono preso semplicemente un mese sabbatico. Spero che i prossimi Amarcord, pur non avendo una cadenza settimanale, non avranno bisogno di mesi sabbatici. Talvolta, soprattutto con New York, anni '70 e ’80, dove gli avvenimenti e i ricordi sono moltissimi e si accavallano, per dipanare la matassa, occorre qualche verifica. E dunque un po’ di tempo. G.P.
New York Anni '80 (Parte Seconda)
L’East Village è uno dei quartieri più popolari di Manhattan, vicino a Broadway, nella parte meridionale dell’isola, dunque raggiungibile con una gradevole passeggiata dal cuore della grande mela. Alla fine degli anni ’70, l’East Village, parte dell’allora malfamata Lower East Side, era una zona vivace e multicolore ma depressa, caratterizzata da sporcizia, buche nelle strade (proprio come alcune città italiane oggi), auto abbandonate, con servizi pubblici molto carenti e con solo qualche autobus sgangherato in circolazione. La crisi economica degli anni ’70 aveva fatto fuggire molti artigiani e piccole ditte, lasciando uffici, appartamenti, seminterrati deserti e facendo crollare i prezzi degli immobili. Gli artisti, a New York, ma credo ovunque, hanno sempre avuto le antenne nell’individuare le nuove aree di sopravvivenza che poi diventano aree speculative (dove si concentrano i poveri c’è sempre spazio per gli squali), acquistando o affittando, a prezzi di saldo, studi e abitazioni, magazzini e bassifondi. Da parte dei gruppi immobiliari a New York c’è sempre stata una particolare attenzione al flusso degli artisti, perché loro individuavano i quartieri più malmessi per contribuire poi a farli risorgere. Così era stato per SoHo, da quartiere degli autotrasporatori e dei depositi di merci a raffinato quartiere dell’arte e poi della moda. Così è avvenuto più tardi per Chelsea e poco prima con l’East Village, che diventò ben presto un quartiere di artisti, poeti, scrittori, attori, musicisti, fotografi e cantanti. E come sempre attentamente monitarato dagli speculatori immobiliari, i cosiddetti Lupi di Wall Street. E quello è anche il momento della nascita del movimento musicale No Wave (di estrazione punk e in cui tutto era permesso e accettato), e la cui musica e le parole erano incentrate sul rifiuto della cultura dominante, in opposizione al precedente New Wave, legato invece alle grandi case discografiche. E questa cultura del rifiuto influenzò anche il teatro, il cinema, l’arte, la letteratura, ecc. dando sfogo ad una creatività libera ed esplosiva, anche se a volte semplicemente amatoriale. Ma che gioia vivere quell’atmosfera frizzante dove a tutti era permesso tutto, dove i dilettanti e i pittori della domenica si scatenavano insieme ai grandi artisti, che hanno iniziato proprio all’East Village, come Jeff Koons, Peter Halley, Sherrie Levine, Ashley Bickerton, Haim Steinbach, nella mitica galleria International With Monument, la loro carriera. Ma tutti si ritrovavano a fraternizzare insieme nei ristoranti, nelle piccole gallerie o nelle vie chiassose o nei frequenti talk show in location improvvisate.
Madonna con Jean-Michel Basquiat. |
Veronica Ciccone detta Madonna
Luoghi preferiti di incontri e di discussioni accese erano il Mudd Club o il bar 315 a Bowery, non lontano dallo studio di Vito Acconci, che da sempre aveva abitato quel quartiere dismesso e disastrato, ma da lui individuato già nei primi anni ’60 e dunque pagato nulla (anche se la sua casa era ampia e accogliente, in cima a una faticosissima scala che ti faceva venire il fiatone). Ma ogni volta che io e Helena ci recavamo a casa sua, in genere per cena, dunque di notte, avevamo il batticuore, poiché la via era il ritrovo di spacciatori molto aggressivi, e caratterizzata da cassonetti svuotati e da decine di senza tetto che dormivano dentro scatoloni sul marciapiede. Non era proprio un posto allegro né da passeggiate romantiche, che all’epoca erano naturali per noi, nè per serate con gli amici. E noi non avevamo il coraggio un po’ irresponsabile anche se ammirevole di Francesca Alinovi che invece frequentava quei luoghi e altri maggiormente degradati e pericolosi, con grande naturalezza e sicurezza, trovando innocui e anche divertenti gli spacciatori aggressivi di cui diventava amica, i mendicanti e gli homeless che ti sbarravano la strada chiedendoti un quarter (25 centesimi). In questa atmosfera culturale stava muovendo i primi passi anche Veronica Ciccone, alias Madonna, appena arrivata da Pontiac, nel Michigan, dove malgrado i brillanti successi scolastici (sempre prima della classe e in tutti gli sport), con grande disappunto del padre benestante, ottenuta una borsa di studio, lascia il Michigan per recarsi a New York (mica stupida la ragazza!). Per poter studiare danza con il famoso coreografo Alvin Ailey. Ma New York non era come la nativa Pontiac, dove si viveva veramente con poco e senza pericoli: con la sua borsa di studio New York era veramente proibitiva e per questo scelse il quartiere più degradato ed economico della città, stabilendosi in un bilocale malmesso, con grandi finestre sulla strada, dell’East Village, integrando la modesta borsa di studio con i primi guadagni come modella per gli studenti di pittura e per qualche fotografo alle prime armi, oppure posando per Playboy e Penthouse. Così Madonna, tra una mostra di grafitisti (era diventata amica di Jean Michel Basquiat e di Andy Warhol) e un drink al Bar 315, cercava di sbarcare il lunario e nel suo bilocale malmesso e poco illuminato, dove dalla strada spesso vedevamo questa ragazza bruna, che io credevo fosse un’italiana, sgambettare serissima con l’aiuto di un giradischi stonato: eppure proprio qui, nel cuore dell’East Village, accanto alla sua scuola di danza e non lontana dalla sua abitazione, una sera venne aggredita e stuprata da alcuni giovani in cerca di esperienze hard. Lo schock fu violentissimo ma altrettanta fu la rabbia, la reazione e la determinazione di Madonna a voler continuare. Anzi, credo che quella brutale esperienza abbia contribuito a rafforzare il carattere di Veronica Ciccone. In quel periodo partecipò anche al film L’oggetto del desiderio, un thriller erotico di Stephen Jon Lewicki, che però incredibilmente gli fruttò solo 100 dollari, malgrado fosse la protagonista. Questo episodio indica il livello di povertà e di degrado di quel quartiere in quegli anni. Il film esce alcuni anni dopo, nel 1985, sulla scia della pellicola di successo Like a Virgin, malgrado Madonna abbia tentato in tutti i modi di bloccarne l’uscita. E fu proprio una collega e amica di Madonna, Patti Astor, una giovane attrice considerata la regina dell’underground newyorchese ad animare per prima l’East Village, aprendovi la sua galleria, la Fun Gallery.
Patty Astor con opere di Keith Haring presso la Fun Gallery, 1983. Fotografia di Eric Kroll. |
Patti Astor, regina dell'underground e la Fun Gallery
Patti Astor era una coetanea di Madonna, altrettanto energica ma politicamente più impegnata. Nata e cresciuta a Cincinnati, all’età di 18 anni, nel 1968, si trasferì a New York, diventando la leader politica contro la guerra in Vietnam. Patti, donna simpaticissima, di grande vivacità ed energia, fu una cantante punk rock di successo, nonché attrice protagonista di una decina di film underground, ora tutti agli archivi del MoMa e del Whitney Museum. Ma per quanto ci riguarda lei ha lasciato l’impronta migliore come gallerista, molto ammirata anche da Leo Castelli (mi parlava con molta invidia del suo fiuto per il nuovo, dicendo anche che la differenza di età tra lei e lui, circa 50 anni, si avvertivano), perché con ottimo intuito, infatti lei diventò il riferimento di tutti i grafitisti (Futura 2000, LEE, Zephyr, Lady Pink), ma espose per prima anche Kenny Scharf, Jean Michel Basquiat, Keith Haring. La sua galleria, la Fun Gallery, lei mi diceva, deve presentare l’arte per tutti, deve decidere il pubblico chi è il migliore, non io. Infatti accanto a Basquiat tu vedevi il quadro di un artista sconosciuto e di passaggio che gli lasciava un’opera da esporre. Alla Fun Gallery non esistevano né censure né barriere. E Patti Astor, donna donna intelligente e interessante, trattava tutte le opere con lo stesso amore. Ma Patti, sempre alla ricerca del nuovo, dopo un paio di anni chiuse la galleria e si trasferì a Hollywood, dove scrisse e interpretò qualche film non commerciale. Perché Patti, la regina dell’underground ma anche dell’East Village, non voleva (o non riusciva?) ad entrare nel filone del cinema commerciale.
Gracie Mansion e Sur Rodney (Sur) davanti alla Gracie Mansion Gallery, East Village, 1980. |
L’anno del miracolo è il 1982
Dunque l’anno del miracolo e della ripresa a Manhattan è il 1982. Fu anche l'anno della grande esplosione del quartiere che divenne in poche settimane, una attrazione culturale mondiale. Imprevedibilmente, improvvisamente e inspiegabilmente, l’East Village, quartiere depresso e derelitto, diventa il centro del mondo. Mi resi conto allora che solo in America possono accadere certe cose, dove la realtà può essere ribaltata da un giorno all’altro, il ricco diventare povero ma anche viceversa e un quartiere da periferia diventare l’ombelico del mondo. Gli artisti che avevano preso possesso del quartiere lo avevano in pochi mesi miracolato: ogni casa, ufficio, stanza, balcone, bassifondo erano diventati una galleria d’arte, uno studio a cielo aperto, un piccolo teatro di danza, una sala di musica, uno studio fotografico o grafico: ma tutti un centro di discussione permanente. E l’intero quartiere emanava una energia creativa e propulsiva palpabile che sprigionava giovinezza e gioia di vivere. Un quartiere curioso, forse un po’ eccentrico, un formicaio dirompente della creatività allo stato naturale, grazie anche ad alcune gallerie che avevano anticipato la moda e vi si erano stabilite, tra cui Pat Hearn, Vox Populi, Gracie Mansion, Nature Morte, International with Monument e soprattutto, come abbiamo visto, Patti Astor. Ogni spazio disponibile del quartiere, dalle abitazioni, ai bar, negozi, piccoli uffici, terrazzini, gabbiotti, esponevano arte. Un alveare con arte di ogni genere, dal tardo surrealismo alla pittura naif, dall’astrazione geometrica all’informale. Perché tutti gli artisti giovani, giovanissimi o adulti ma ancora in cerca di successo, si erano ritirati strategicamente per sopravvivere all’East Village. Un Aventino pieno di energie e che stava per esplodere, non implodere. Gracie Mansion aveva ritagliato la sua minigalleria nel bagno della propria abitazione. E le opere erano posate o appese alla finestra, alla porta, attaccate al soffitto, alla catenella del water e posate sullo stesso piano del water o dentro il lavandino (mancava il bidè per marcare in modo più specifico la mostra) per cui la visita diventava talvolta una sorta di gimcana per non sbaraccare un'opera. E noi tutti, silenziosi e raccolti come ad un pellegrinaggio da Padre Pio, a scrutare ogni centimetro della toilette di Grace (Mansion) in cerca di possibili capolavori. E ovunque, dentro e fuori le abitazioni, nei bar e sui marciapiedi, giovani che fumavano serenamente hashish, impregnando con l’odore tipico, tutto il quartiere. Addirittura, arrivando da Houston, l’odore dell’hashish ti avvolgeva sin dall’inizio della via.
Leo Castelli e Ileana Sonnabend con loro la figlia Nina. |
L’East Village sulle prime pagine dei giornali
Ma intanto l’East Village si era guadagnato le prime pagine dei giornali e la nomination a quartiere della nuova creatività. Anche se i risultati potevano apparire modesti o velleitari, l’insieme era così vivace e folcloristico da suscitare l’interesse di tutti i curiosi dell’arte, sempre in attesa e in agguato di qualche novità. Ma la vera novità vincente e che giocò un ruolo determinante, fu che l’East Village restava aperto il sabato e la domenica, quando le altre gallerie erano chiuse. Il che permetteva a tutti i galleristi di Manhattan e ai loro assistenti con un po’ di curiosità, di peregrinare nell’East Village. Allora vedevi spesso Ileana Sonnabend e Leo Castelli, passeggiare insieme per il quartiere, osservando con attenzione e umiltà tutti gli spazi espositivi, (compresa la toilette di Grace) complimentandosi e incoraggiando galleristi e artisti. Era un momento quello di grande coralità, in cui tutte le gallerie di Manhattan, ma in particolare Leo Castelli, erano alla ricerca di qualcosa di nuovo, dopo l'ondata un po’ fredda e consumata dell’arte concettuale e minimal.
Invece l’East Village, con i suoi colori e i suoi mille e più pittori, scrittori, musicisti, da interno e da strada, sprizzava energia, colore, novità. Una nuova forma di produrre e presentare l’arte. Le decine di migliaia di visitatori del sabato e domenica, che formavano una lunga, interminabile coda, provenienti dall’Europa tutta, da New York e dalla provincia, potevano assaporare l’arte in tutte le forme espressive e portarsi a casa un’opera o un souvenir, spesso per pochi dollari. Ricordo che era una grande festa popolare per tutti e che ti faceva sembrare interessante anche ciò che non lo era. E moltissimi, noi compresi, ad acquistare della paccottiglia che una volta portata a casa e osservata bene la gettavi nel bidone della spazzatura. Ma eri anche tu contagiato dal sacro furore dell’arte e dalla sensazione di poter scoprire il nuovo Jasper Johns. La kermesse nell’East Village durò un paio di anni. E ricordo che gli appassionati d’arte e i curiosi di tutto, partivano espressamente dall’Europa, per vivere questa esperienza culturale entusiasmante per tutti.
Pat Hearn ritratta da Andy Warhol. |
Entra in scena Pat Hearn
Ma Indubbiamente la galleria più professionale e bella, che poteva misurarsi con i più famosi spazi di Soho era quella di Pat Hearn, che Leo Castelli considerava più bella della sua (forse anche in omaggio alla bellezza di Pat Hearn, che Leo ammirava molto nel suo abbigliamento casual e un po’ grunge: ma si sa, Leo era un grande ammiratore della grazia femminile). Pat che pur non essendo glamour, si contendeva il primato del fascino femminile con Mary Boone a SoHo, simbolo invece del potere della donna di successo (purtroppo in questi giorni è nei guai con il fisco americano, a cui ha dovuto versare 19 milioni di dollari ma rischiando anche dai 3 ai 5 anni di prigione, che forse i suoi avvocati, dimostrando che il crimine è stato conseguenza di traumi dell’infanzia, riusciranno a evitarle la prigione chiedendo gli arresti domiciliari) in galleria aveva un gruppo di artisti promettenti, che reintroducevano una certa pittura figurativa o astratta leggera, spesso ironica (George Condo, David Bowes, Milan Kunc, Donald Baechler, Philippe Taaffe) in contrapposizione a quella greve e un po’ soffocante di Julian Schnabel: che però aveva sbancato New York dapprima con Mary Boone poi approdando alla Pace, la galleria nemica storica di Leo Castelli. Leo, nei nostri frequenti incontri mi parlava con grande rispetto di tutti, perché era un gentiluomo e per lui non esistevano nemici: solo quando si nominava Arne Glimcher, proprietario della Pace, si inalberava: perché mi raccontava gli aveva sottratto in modo un po’ fraudolento Rosenquist (che a me personalmente non sembrava una grave perdita ma per Leo invece fu una ferita insanabile). E Leo, correttissimo con tutti i suoi colleghi, mai uno sgarbo con nessuno di loro, non accettò questa intrusione, considerandola un crimine. E ora che Pace era riuscita a mettere le mani anche su Julian Schnabel, che Leo, malgrado il suo potere mediatico non era riuscito a catturare, il suo furore si trasformò in odio. Pat Hearn entrò, come sua abitudine in punta di piedi nella scena artistica di New York, ma ben presto con la sua pattuglia di giovani promettenti, in una New York in attesa del nuovo, si fece notare. Le sue inaugurazioni erano le più frequentate di Manhattane i suoi artisti considerati le nuove promesse della scena artistica. Ricordo che Helena Kontova, che seguiva da tempo attraverso Flash Art, gli artisti di The Pictures, detti anche “appropriatori di immagini”, organizzò una discussione storica nella sua galleria, Dalla critica alla complicità con Jeff Koons, Peter Halley, Haim Steinback, Meyer Veisman, Philippe Taffe, Sherrie Levine, a cui partecipò tutta la New York dell’arte. La discussione mise a punto il cambiamento in atto che stava spostando l’idea della criticità dell’arte, dalla appropriazione delle immagini verso il possesso dell’oggetto del desiderio. Moderatore Peter Nagy, artista e direttore della galleria Nature Morte, poi trapiantata in India. Fu una discussione accesa ed entusiasmante, a dimostrazione dell’impegno e del sacro furore che animava tutti quei giovani artisti alle loro primissime mostre. Ricordo ancora una frase topica di Jeff Koons in quella discussione, riportata poi in Flash Art: A me interessa raggiungere un pubblico generico riuscendo al tempo stesso a mantenere l’opera a livelli alti. Chiunque può arrivare alle mie opere provenendo da un livello medio di cultura. La sua lucidità e determinazione mi hanno sempre conquistato. Non ho mai conosciuto un artista che ha saputo costruirsi una carriera con tanta lucidità e intelligenza come lui. Anche se i grandi traguardi ottenuti (ad un certo momento è stato il più costoso artista vivente) non potranno essere mantenuti: sono curioso di vedere come affronterà la sua inevitabile decadenza.
Fine della seconda parte: a breve la terza parte, ancora sugli anni ‘80
Contributi
A proposito di Enzo Cucchi al Guggenheim
Caro Politi,
ho letto nel precedente Amarcord il suo scritto su Cucchi, in occasione della sua mostra al Guggenheim Museum. Non le sembra di essere stato un po’ severo con l’artista italiano? Grazie.
Angelo Diotallevi, Roma
Ma Enzo Cucchi è un grande artista!
Caro Amico,
ma io ho molta stima del lavoro di Enzo Cucchi. Lo considero bizzarro (come altri artisti) ma geniale e imprevedibile. E comunque di grande qualità. Il mio giudizio riguardava la sua strategia espositiva, forse non in linea con lo spirito americano. Io ho riportato il punto di vista generale che in quell’occasione mi fu sintetizzato da Jeffrey Deitch, un autorevolissimo osservatore di livello internazionale. Ma tanto di cappello all’artista Enzo Cucchi. E poi una mostra sbagliata non fa primavera. Enzo Cucchi ha tutti mezzi e capacità per superare questo momento di depressione generale. Anzi, se potessi permettermelo, acquisterei volentieri un’opera bella di Enzo.
Massimo Minini: adesso il frigo funziona
Caro Giancarlo.
Getulio era il più simpatico dei burberi brontoloni.
Ho delle sue lettere deliranti contro Sol LeWitt, contro di me che lo difendevo, una delizia dialettica, anche se impossibili, fuor di ogni logica. Incredibile che tu venga accusato di nonsocchè. Da ridere la storiella della bticino invece che AVE. Arrampicarsi sui vetri è un’arte. Noi siamo la patria del diritto, ma anche del rovescio. Tra l’altro l’AVE è bresciana del mio amico Sandro Belli, parlerò con lui di Get.
E per quanto riguarda Gino de Dominicis, che disastro: uno che si è difeso tutta la vita, che si è rarefatto, che non ha pubblicato, che ha creato un’aura di mistero attorno a sé e al proprio lavoro, viene sbattuto e frullato in prima pagina appena passato all’eternità. Iniziando dalla mostra al MAXXI (per fortuna lui non l’ha vista...) Quella mostra è la migliore dimostrazione che non c’é un aldilà. Ci fosse, Gino avrebbe chiesto a Dio, a Zeus, o forse a Manitù di mandare un fulmine, invece niente. Così come sarebbero arrivati fulmini sulle fondazioni a suo nome, libroni, pubblicazioni… E per quanto riguarda la mia provocazione, figurati, ho grande simpatia per tanti, e specialmente per Pio di cui ricordo Ebrea di Fabio Mauri a Brescia all’ACME di Valentino Zini. Certo il sistema italiano è debole anche perché siamo troppo furbi, una bella genialità. Come dimenticare le strepitose mostre alla Bertesca, la prima di Cucchi da Deambrogi a Milano (con Piero Cavellini per la precisione) e certo Marina dall’Inga-Pin. Vero, ma le medaglie hanno un rovescio, cioè come l’elettricista che abbiamo chiamato a casa per una urgenza. È venuto subito, ha trombato mia moglie, messo incinta mia figlia, stuprato la nonna e poi ha cambiato le lampadine, ha sistemato l’impianto ed ora siamo felici perché il frigo funziona perfettamente...” Il sistema dell’arte Italiano è debole perché siamo troppo furbi. E a volte sono gli stessi artisti a fare disastri. Pensa a un grande come Turcato, pensa ad un grande pittore come Schifano: autentiche a San Marino, no niente, contrordine, autentiche a Roma poi anche a Milano (tutte a pagamento. Chi ha fatto le prime le può buttare nel cesso, valgono le seconde. E se qui non passano prova col terzo archivio etc.). Pensa a Manzoni, tutti sanno che Piero ha fatto circa 400 opere. Oggi ce ne sono 1800 autenticate. Primo Celant, secondo Celant. Prima Freddy Battino, le autentiche di mamma Valeria, quelle del nuovo archivio che cerca di mettere ordine...
Pensa che pochi anni fa il catalogo delle opere di Rembrandt è stato ridotto da 900 opere a 400. Circa.
Cosa succederà quando, calmate le acque del mercato facile, appena l’arte moderna sarà diventata antica, quando gli storici potranno finalmente redigere il vero catalogo del Piero, le opere certe passeranno da 1800 a 400! Che disastro, che pianti, che manna per gli avvocati. Direttori di museo che mandano nei depositi opere fino a poco prima mirabolanti. E prendo Manzoni come esempio ma potremmo farne tanti.
Ma certo gli avvocati sono in agguato, il tuo caso insegna, meglio lasciar perdere, in fondo che ci frega ROMA O SPAGNA purché se magna. L’Italia è un grande paese ha una storia millenaria, una storia dell‘arte pazzesca. Un paese mirabile, persino Dio ha scelto di abitare qui... basta con ste lamentele. Certo io ho acquistato un bellissimo “Compagni Compagni” da Finarte fine anni ottanta e l’archivio non me lo passa. Ho acquistato da una nota galleria milanese un rarissimo e vecchissimo Paolini: falso. L’archivio LeWitt mi ha respinto un disegno acquistato da altra nota galleria milanese: falso. Io ho ripagato le persone cui avevo venduto, ma non sono mai riuscito a farmi pagare da chi me li aveva venduti. Ah! Questi “cari colleghi” che fatica però. Sai cos’é? E' che io ci tengo alla faccia. Altri no, e sono molti. Per questo, anche per questo, il sistema italiano è debole. Troppi furbi, e tanti che li giustificano, ma in fondo hanno cambiato le lampadine e adesso il frigo funziona...
Io mi accontento del frigo
Caro Massimo,
si, certo, ci dobbiamo accontentare del frigo che funzioni. In questa Italia allo sfascio è già un sintomo di vitalità. Ma se togliamo all’arte e al sistema dell’arte italiani, quel pizzico di follia che l’ha sempre caratterizzata (da Caravaggio a Van Gogh, sino ai nostri giorni con Francesco Masnata, Pio Monti, Remo Pastori, Franz Paludetto, Franco Toselli, De Dominicis, Schifano, Festa e tanti altri) ci resterebbero solo delle opere, spesso mute, attaccate alla parete. E a noi non bastano. Ma se riduciamo Manzoni a 400 opere (Enrico Castellani mi giurava che non erano più di 200-300) cosa resta di lui? E’ diventato Manzoni perché sul mercato hanno girato duemila opere, contribuendo a costruire un mito. Con 400 opere sarebbe restato l’alcolista del Bar Giamaica. Un aneddoto per te: negli anni ’70 con Gino Di Maggio e una collezionista sua conoscente, andammo dalla mamma di Piero Manzoni, per mostrargli un’opera e chiederne la eventuale autentica. La contessa Manzoni ci liquidò frettolosamente: io non so nulla del lavoro di mio figlio, l’esperto che io ho delegato per autenticare le sue opere è Sarenco di Brescia. Lascio a te caro Massimo, che sei di Brescia e hai conosciuto Sarenco, ogni commento. Sarenco è stato anche un distributore per l’Italia di opere di Beuys...Negli anni ’60 su Newsweek uscì un articolo che rivelava che solo nei musei USA esistevano più opere di Manet (o Degas?) di quante lui ne avesse realizzate. Pare che intervenne l’FBI (o la Cia) per mettere a tacere tutto, altrimenti avrebbero chiuso molti musei americani. Caro Massimo, accontentiamoci di guardare ciò che ci viene proposto senza farci troppe domande. Tu sai che la Gioconda molto probabilmente è una copia? E ti assicuro, visto che io l’ho conosciuto, le opere originali di Manzoni non sarebbero giunte sino a noi, realizzate in modo maldestro e con mezzi molto fragili e approssimativi. Invece lasciamoci rapire dalle belle opere che ci sono proposte oggi. Perfette, levigate, che sembrano uscite ieri dallo studio, anzi, dalla fabbrica. Anche l’occhio vuole la sua parte. Ma hai ragione tu: purtroppo il mercato delle autentiche è un disastro ma non possiamo farci nulla. Io mi accontento di guardare una bella opera. Pensa, negli anni ’80 un amico mi dice che vorrebbe comperare un’opera di Alighiero Boetti e se potevo presentarlo. Chiamai Alighiero pregandolo di trattare bene questa persona che voleva un piccolo arazzo. Poi con il tempo, nei tardi anni ’90, questo amico, in un momento di necessità. mi rivendette l’arazzino. Mi pare per un milione di lire. Ma l’Archivio non lo ha riconosciuto. E io mi tengo il bell’arazzetto (riconosciuto valido anche da Giorgio Colombo, a mio avviso un super esperto di Alighiero) immaginandolo grande, come certi capolavori di Alighiero. In fondo, basta accontentarsi. E avere un po’ di immaginazione.
Caro Politi,
ho letto nel precedente Amarcord il suo scritto su Cucchi, in occasione della sua mostra al Guggenheim Museum. Non le sembra di essere stato un po’ severo con l’artista italiano? Grazie.
Angelo Diotallevi, Roma
Ma Enzo Cucchi è un grande artista!
Caro Amico,
ma io ho molta stima del lavoro di Enzo Cucchi. Lo considero bizzarro (come altri artisti) ma geniale e imprevedibile. E comunque di grande qualità. Il mio giudizio riguardava la sua strategia espositiva, forse non in linea con lo spirito americano. Io ho riportato il punto di vista generale che in quell’occasione mi fu sintetizzato da Jeffrey Deitch, un autorevolissimo osservatore di livello internazionale. Ma tanto di cappello all’artista Enzo Cucchi. E poi una mostra sbagliata non fa primavera. Enzo Cucchi ha tutti mezzi e capacità per superare questo momento di depressione generale. Anzi, se potessi permettermelo, acquisterei volentieri un’opera bella di Enzo.
Massimo Minini: adesso il frigo funziona
Caro Giancarlo.
Getulio era il più simpatico dei burberi brontoloni.
Ho delle sue lettere deliranti contro Sol LeWitt, contro di me che lo difendevo, una delizia dialettica, anche se impossibili, fuor di ogni logica. Incredibile che tu venga accusato di nonsocchè. Da ridere la storiella della bticino invece che AVE. Arrampicarsi sui vetri è un’arte. Noi siamo la patria del diritto, ma anche del rovescio. Tra l’altro l’AVE è bresciana del mio amico Sandro Belli, parlerò con lui di Get.
E per quanto riguarda Gino de Dominicis, che disastro: uno che si è difeso tutta la vita, che si è rarefatto, che non ha pubblicato, che ha creato un’aura di mistero attorno a sé e al proprio lavoro, viene sbattuto e frullato in prima pagina appena passato all’eternità. Iniziando dalla mostra al MAXXI (per fortuna lui non l’ha vista...) Quella mostra è la migliore dimostrazione che non c’é un aldilà. Ci fosse, Gino avrebbe chiesto a Dio, a Zeus, o forse a Manitù di mandare un fulmine, invece niente. Così come sarebbero arrivati fulmini sulle fondazioni a suo nome, libroni, pubblicazioni… E per quanto riguarda la mia provocazione, figurati, ho grande simpatia per tanti, e specialmente per Pio di cui ricordo Ebrea di Fabio Mauri a Brescia all’ACME di Valentino Zini. Certo il sistema italiano è debole anche perché siamo troppo furbi, una bella genialità. Come dimenticare le strepitose mostre alla Bertesca, la prima di Cucchi da Deambrogi a Milano (con Piero Cavellini per la precisione) e certo Marina dall’Inga-Pin. Vero, ma le medaglie hanno un rovescio, cioè come l’elettricista che abbiamo chiamato a casa per una urgenza. È venuto subito, ha trombato mia moglie, messo incinta mia figlia, stuprato la nonna e poi ha cambiato le lampadine, ha sistemato l’impianto ed ora siamo felici perché il frigo funziona perfettamente...” Il sistema dell’arte Italiano è debole perché siamo troppo furbi. E a volte sono gli stessi artisti a fare disastri. Pensa a un grande come Turcato, pensa ad un grande pittore come Schifano: autentiche a San Marino, no niente, contrordine, autentiche a Roma poi anche a Milano (tutte a pagamento. Chi ha fatto le prime le può buttare nel cesso, valgono le seconde. E se qui non passano prova col terzo archivio etc.). Pensa a Manzoni, tutti sanno che Piero ha fatto circa 400 opere. Oggi ce ne sono 1800 autenticate. Primo Celant, secondo Celant. Prima Freddy Battino, le autentiche di mamma Valeria, quelle del nuovo archivio che cerca di mettere ordine...
Pensa che pochi anni fa il catalogo delle opere di Rembrandt è stato ridotto da 900 opere a 400. Circa.
Cosa succederà quando, calmate le acque del mercato facile, appena l’arte moderna sarà diventata antica, quando gli storici potranno finalmente redigere il vero catalogo del Piero, le opere certe passeranno da 1800 a 400! Che disastro, che pianti, che manna per gli avvocati. Direttori di museo che mandano nei depositi opere fino a poco prima mirabolanti. E prendo Manzoni come esempio ma potremmo farne tanti.
Ma certo gli avvocati sono in agguato, il tuo caso insegna, meglio lasciar perdere, in fondo che ci frega ROMA O SPAGNA purché se magna. L’Italia è un grande paese ha una storia millenaria, una storia dell‘arte pazzesca. Un paese mirabile, persino Dio ha scelto di abitare qui... basta con ste lamentele. Certo io ho acquistato un bellissimo “Compagni Compagni” da Finarte fine anni ottanta e l’archivio non me lo passa. Ho acquistato da una nota galleria milanese un rarissimo e vecchissimo Paolini: falso. L’archivio LeWitt mi ha respinto un disegno acquistato da altra nota galleria milanese: falso. Io ho ripagato le persone cui avevo venduto, ma non sono mai riuscito a farmi pagare da chi me li aveva venduti. Ah! Questi “cari colleghi” che fatica però. Sai cos’é? E' che io ci tengo alla faccia. Altri no, e sono molti. Per questo, anche per questo, il sistema italiano è debole. Troppi furbi, e tanti che li giustificano, ma in fondo hanno cambiato le lampadine e adesso il frigo funziona...
Io mi accontento del frigo
Caro Massimo,
si, certo, ci dobbiamo accontentare del frigo che funzioni. In questa Italia allo sfascio è già un sintomo di vitalità. Ma se togliamo all’arte e al sistema dell’arte italiani, quel pizzico di follia che l’ha sempre caratterizzata (da Caravaggio a Van Gogh, sino ai nostri giorni con Francesco Masnata, Pio Monti, Remo Pastori, Franz Paludetto, Franco Toselli, De Dominicis, Schifano, Festa e tanti altri) ci resterebbero solo delle opere, spesso mute, attaccate alla parete. E a noi non bastano. Ma se riduciamo Manzoni a 400 opere (Enrico Castellani mi giurava che non erano più di 200-300) cosa resta di lui? E’ diventato Manzoni perché sul mercato hanno girato duemila opere, contribuendo a costruire un mito. Con 400 opere sarebbe restato l’alcolista del Bar Giamaica. Un aneddoto per te: negli anni ’70 con Gino Di Maggio e una collezionista sua conoscente, andammo dalla mamma di Piero Manzoni, per mostrargli un’opera e chiederne la eventuale autentica. La contessa Manzoni ci liquidò frettolosamente: io non so nulla del lavoro di mio figlio, l’esperto che io ho delegato per autenticare le sue opere è Sarenco di Brescia. Lascio a te caro Massimo, che sei di Brescia e hai conosciuto Sarenco, ogni commento. Sarenco è stato anche un distributore per l’Italia di opere di Beuys...Negli anni ’60 su Newsweek uscì un articolo che rivelava che solo nei musei USA esistevano più opere di Manet (o Degas?) di quante lui ne avesse realizzate. Pare che intervenne l’FBI (o la Cia) per mettere a tacere tutto, altrimenti avrebbero chiuso molti musei americani. Caro Massimo, accontentiamoci di guardare ciò che ci viene proposto senza farci troppe domande. Tu sai che la Gioconda molto probabilmente è una copia? E ti assicuro, visto che io l’ho conosciuto, le opere originali di Manzoni non sarebbero giunte sino a noi, realizzate in modo maldestro e con mezzi molto fragili e approssimativi. Invece lasciamoci rapire dalle belle opere che ci sono proposte oggi. Perfette, levigate, che sembrano uscite ieri dallo studio, anzi, dalla fabbrica. Anche l’occhio vuole la sua parte. Ma hai ragione tu: purtroppo il mercato delle autentiche è un disastro ma non possiamo farci nulla. Io mi accontento di guardare una bella opera. Pensa, negli anni ’80 un amico mi dice che vorrebbe comperare un’opera di Alighiero Boetti e se potevo presentarlo. Chiamai Alighiero pregandolo di trattare bene questa persona che voleva un piccolo arazzo. Poi con il tempo, nei tardi anni ’90, questo amico, in un momento di necessità. mi rivendette l’arazzino. Mi pare per un milione di lire. Ma l’Archivio non lo ha riconosciuto. E io mi tengo il bell’arazzetto (riconosciuto valido anche da Giorgio Colombo, a mio avviso un super esperto di Alighiero) immaginandolo grande, come certi capolavori di Alighiero. In fondo, basta accontentarsi. E avere un po’ di immaginazione.
Sergio Risaliti
Caro Giancarlo aver letto su Artribune di te e del riconoscimento alla tua rubrica mi ha fatto un gran piacere.
Ho avuto il privilegio di lavorare con te molti anni fa in redazione dal 1992 al 1994 e poi come collaboratore ho continuato a scrivere fino ad oggi. Ho sempre ritenuto la tua rivista un servizio al pubblico da cui non prescindere per essere informati comunque e dovunque piacendo o meno quello che veniva trasmesso.
Un fatto è certo, molti critici curatori direttori di musei si sono formati alla tua scuola.
E grazie a questo tuo lavoro di Helena e di tanti collaboratori il sistema dell’arte è oggi meno provinciale e arretrato di quanto lo avrebbero voluto i conservatori del sapere e dell’informazione.
Come tutte le persone geniali non sei certo contenibile in schemi riduttivi o dentro cornici di comodo.
Per questo ti ho sempre a mio modo sostenuto e apprezzato portandoti ad esempio di giornalismo critico non omologato né schierato. Lo spazio che hai dato poi alle nuove generazioni ai nuovi movimenti alla sperimentazione è stato di grande aiuto per l’emergere del nuovo. E non ti sei mai dimenticato del passato e dei maestri cui hai sempre dedicato attenzione invitando le nuove leve di critici a cimentarsi con loro.
Grazie. Con affetto sincero e buon anno
Sergio Risaliti
La bellezza assopisce? La sindrome di Stendhal uccide la creatività?
Caro Sergio,
che piacere sentirti! Tu che hai contribuito in modo determinante a portare l’arte contemporanea a Firenze! Con la tua perseveranza e la grande capacità di realizzare mostre straordinarie a costo zero. Ora Firenze ha preso l’abbrivio e sembra non fermarsi più. Anche se temo in qualche caso che l'evento si trasformi in baraccone. E non a costo zero, come tua consuetudine. Ma meglio così che il vuoto di dieci anni fa. Ma come mi spieghi tu che in questi ultimi 50/60 anni, a parte Sandro Chia che è emigrato per tempo, Firenze non ha prodotto alcun artista di rilievo? La bellezza assopisce? La sindrome di Stendhal uccide la creatività? Bisogna vivere in metropoli desolate e violente per produrre buona arte? Tu che pensi?
Per il resto, cosa dirti? Ho sempre apprezzato la tua passione e i tuoi strali. Indice di razza buona. Anche se ai tempi d’oggi, pericolosi. Meglio l’acquiescenza, credimi. La salute prima di tutto.
Fausta Squatriti
Caro Giancarlo, grazie per questo nuovo tuo Amarcord, e per avere pubblicato il mio.
Mi dispiace che ci siano persone che credono tu stia diffamando Getulio, non è così, lui era una persona complessa, e anche complicata, contraddittoria, sapeva essere generoso e tirchio, empatico e respingente, non lo si può narrare senza dire questo, e rimane che sapeva farsi amare, più che odiare, perché la sua genialità, alla fine, rielaborava tutto, compreso le cose inaccettabili che abbiamo tutti - subito - e perdonato.
Hai narrato le tante sfaccettature con bello stile, contrariamente al testo dell’avvocato che ti scrive, e ne emerge un racconto affettuoso, ma certo non privo di oggettività, del Get. Un personaggio alla Maupassant, a pensarci bene. Mi ha commosso leggere che lo consideri padre, figlio, fratello… e ti assicuro che anche io ho sempre provato lo stesso sentimento di appartenenza per tutti quei ruoli differenti, e tutti autentici, nella contraddittoria mescolanza di alto e basso. Spero che tu stia meglio, e faccio a te, a Helena, i miei auguri per l’anno a venire,
Fausta
Getulio Alviani: una testimonianza preziosa
Cara Fausta,
mi fa piacere ricevere le tue testimonianze. Tu che sei stata compagna e poi amica e consulente per la vita di Getulio, che con te ha vissuto un rapporto intenso e turbolento. Ma di grande stima e interscambio (e timore reverenziale?) sino alla fine dei suoi giorni. E mi parlava spesso di te, dei tuoi pregi e dei tuoi (secondo lui) difetti. Ma alla fine ne usciva il ritratto di una persona che lui ammirava e apprezzava enormemente.
Giuseppe Maraniello
Caro Giancarlo la diffida cha hai ricevuto mi sorprende. Con Alviani ho condiviso lo stesso dolore perdendo rispettivamente le nostre mogli a distanza di due mesi. Per lo stesso male. So quello che hai fatto per lui e per Anna. Sei stato un grande e presente amico suo. Ricordo che quando volevamo comprare lo spazio sotto casa tua, facendo una cordata per poi dividerci la metratura, insistevi per riservare a Getulio 50 mq per evitare di lasciarlo solo. Quando il progetto saltò per lo strano comportamento del venditore che per la seconda volta cambiò idea, tu ti accollasti con piacere l’onere di ospitarlo a casa tua per un indefinito tempo. Per chi non lo sapesse, conosco la storia perché le nostre proprietà sono tutte nello stesso cortile. Sono quindi testimone di quanto gli sei stato vicino e della stima che avevi per lui dimostrato anche per lo spazio che ha sempre avuto sulla tua rivista. Potrei continuare a parlare di questo rapporto puramente sostenuto dalla stima e l’amicizia vera, ma tu Giancarlo hai già detto tanto e sostengo non ci sia niente d’inventato o falso. Approfitto per ringraziarti, ancora una volta, questa volta pubblicamente, per tutto quello che ci stai dando ancora col tuo lavoro.
Ciao, Giuseppe Maraniello
Getulio Alviani, un amico e un fratello
Caro Giuseppe,
grazie per la tua testimonianza. Preziosa e di prima mano. Ma non parliamo più di Getulio Alviani. Chi ci ha frequentati sa bene che io ne ho sempre parlato con grande affetto e stima vera, anche se talvolta ho sottolineato alcune sue curiose bizzarrie e manie. Che erano per me e gli altri, spunti di riflessione, a volte profonda, una chiave di lettura secondo me inestimabile. Le sue teorie sull’economia potrebbero portare a riflessioni curiose, Se non lo avessi stimato e amato, non lo avrei tenuto in casa per mesi e mesi né fatto collaborare a Flash Art per anni e anni. Ma la morte cancella amicizie, frequentazioni, rapporti umani, progetti comuni. Lasciando solo il vuoto e molta tristezza. Caro vecchio Get, che amarezza vedere molte tue idee ed opere in mani indegne. Tu che le avresti regalate a chi dimostrava di amarle veramente!
Gianni Cuzzoni
Carissimo Giancarlo,
seguo come molti - moltissimi - i tuoi Amarcord, che stanno diventando una specie di memoria condivisa dell'arte degli ultimi decenni, destinata certamente ad alimentare l'immaginario collettivo del futuro. Tanto più che verba volant, sed scripta manent. Ti sei assunto un compito di grande responsabilità, e hai fatto bene, considerando che tu sei tra i pochi - pochissimi - a poterlo affrontare in modo credibile.
Il tuo Amarcord della vigilia di Natale è stato molto denso di suggestioni, non solo nella parte dedicata alla narrazione, ma anche nei contributi; in particolare, mi è parso surreale l'intervento di quell’avvocato che ti intima di non parlare più di Getulio Alviani, e di non pubblicare immagini che lo riguardino.
E' fenomenicamente inspiegabile -lo dico dal punto di vista scientifico- che così spesso i rappresentanti e/o responsabili degli archivi siano persone lontane milioni di anni-luce dalla storia e dallo spirito degli artisti che dovrebbero (mi scappa da ridere!) valorizzare; se avrai la pazienza di leggere fino in fondo queste note, riprenderò l'argomento un po' più in là. Intanto, però, vorrei raccontare il mio incontro con Getulio, che avvenne a Piacenza, nella galleria di Lino Baldini, fine intenditore che, in anni non sospetti, aveva dedicato al Nostro una mostra personale. L'inaugurazione era affollata, ma per qualche misteriosa ragione Getulio si mise a parlare con me e Daniela, ci raccontò della sua vita presso gli zii, e ci illustrò la sua teoria secondo la quale ognuno avrebbe dovuto avere diritto a muoversi e viaggiare senza spendere denaro. E a questa teoria agganciò la descrizione di come faceva a riutilizzare, potenzialmente all'infinito, lo stesso biglietto della metropolitana: lo timbrava al primo utilizzo in modo che la data fosse poco leggibile, dopo di che bastava avvolgere l'estremità timbrata con un po' di domopak trasparente: la timbratura successiva finiva sul domopak, che rimuoveva subito dopo, rendendo il biglietto pronto per la tornata successiva !
Chissà se certi avvocati riescono a capirlo, ma episodi come questi non sono affatto "lesivi dell'immagine del maestro", ma ne illustrano la dimensione altra che fa di un artista quel che è, ovvero non un produttore seriale di immagini, ma un essere geniale che, sulla base magari di qualche teoria bislacca -il diritto universale allo spostamento- riesce a trasformare la grigia realtà quotidiana in una costante magia, con un gesto che qualcuno può interpretare come malandrino, e altri come un esempio di resistenza umana. Sarebbe proprio la dozzinale normalità che caratterizza il quotidiano di noi travet a offuscarne l'immagine, e a tradirne la natura. Archivi, dicevamo. Nella tua risposta a Massimo Minini, che riprende le vicissitudini degli "archivi" De Dominicis (guarda caso: anche lì, se non sbaglio, c'è di mezzo un avvocato...), definisci Pio Monti come l'unico vero grande esperto di Gino De Dominicis, del quale è stato anche l'unico vero gallerista. Ho avuto la fortuna di conoscere Pio Monti una sera di alcuni anni fa, passando a Roma da Piazza delle Tartarughe, alias Piazza Mattei, senza sapere che lì ci fosse la sua galleria; erano circa le 22, l'interno della galleria era illuminato e ne proveniva della musica. Ci avvicinammo: c'era un grande piano a coda (è ancora lì...) al quale era seduto un uomo, solo, che lo stava suonando. Applaudimmo alla fine del pezzo, così l'uomo si girò, e ci invitò ad entrare. Si mise subito a conversare, le sue poetiche ed esilaranti arguzie presero immediatamente il volo; quando seppe del nostro innamoramento artistico per Gino ci invitò immediatamente a cena, e per tutta la serata ci raccontò un'infinità di episodi della sua vita in comune con Gino, come se fossero accaduti il giorno prima, come se il giorno dopo avesse ancora dovuto incontrarlo, come se i due non si fossero mai separati. Quell'uomo era Pio Monti, e sospetto che Gino e lui, davvero, non si siano assolutamente mai separati.
Un caro abbraccio
Gianni Cuzzoni
Chi tocca Getulio Alviani muore
Caro Gianni,
ricorda, chi tocca Getulio Alviani muore. Dunque lasciamo perdere i fili dell’alta tensione.
Ben tratteggiata da te, pur avendolo incontrato una sola volta, la figura di Pio Monti. Pensa quante cose potrei raccontare io che lo conosco dal 1964. Purtroppo le vicende dell’arte, alcune amare per lui, lo hanno un po’ fiaccato. Speriamo si riprenda. Perché il palcoscenico dell’arte senza Pio Monti sarà un’altra cosa. Anche se tutto ormai è altra cosa.
Aldo Ponis: Archivio Elisabetta Catalano
Buongiorno Giancarlo,
sono Aldo Ponis, da una vita compagno di Elisabetta Catalano e da qualche anno, purtroppo, solo il responsabile del suo Archivio.
In questo mio nuovo ruolo (prima ero un architetto, esperto di pianificazione ambientale) trovo di grande aiuto le esperienze di chi ha intensamente vissuto il passato che, in qualche modo, Elisabetta ha cercato di fissare nelle sue foto.
A poco a poco, grazie all’aiuto di chi quegli anni oggi ha la pazienza di ricordare, mi sembra di potere ricostruire situazioni, personaggi, eventi.
Ed in questa ricerca i tuoi Amarcord mi sono di grande utilità (oltre che di piacevole lettura), di questo volevo ringraziarti
Aldo
Elisabetta, straordinaria ritrattista
Caro Aldo,
Elisabetta, che io ho conosciuto già alla fine degli anni ’60, è stata una grande ritrattista. Peccato che il suo lavoro non abbia la visibilità e l’attenzione che merita. E lei, quando poteva, non fece nulla per proporlo pensando di essere solo una fotografa e una donna bella, a cui era permesso fotografare ma non di essere artista. All’epoca era vietato essere artisti ai ricchi (Fabio Mauri, Gianfranco Baruchello: riconosciuti solo recentemente) e alle donne belle. La bellissima Elisabetta, troppo bella ed elegante era una esclusa eccellente. Ricordo che mi invitò più volte in studio per farmi un ritratto. Erano i tempi in cui lo fece anche a Gino De Dominicis. Ma tra un rinvio e l’altro e poi la mia partenza da Roma nel 1971, il ritratto saltò. A te auguro buona fortuna con il suo Archivio. Anche se io, in questo momento di confusione, non saprei da dove iniziare. Ha tentato qualcosa Massimo Minini, ma con scarso successo. Larry Gagosian farebbe diventare il lavoro di Elisabetta come quello di Diane Arbus o Richard Avedon. Ma il problema è come avvicinarlo al lavoro di Elisabetta.
Roberto Donnini
Gentile Giancarlo
in merito ad AMARCORD 24: inizio anni 1980 a New York. Ci ero già stato anni prima a lavorare e ci tornai dal 1982 al 1984 almeno tre volte per scoprire a fondo il mondo delle gallerie e dell’arte, cui mi ci stavo dedicando ormai da parecchio tempo. Facevo dei lavori particolari, come mi disse Leo Castelli, il giorno che decisi di andare a farglieli vedere nella sua galleria al 420 di W. Broadway. Mi ricordo che arrivai in galleria un po’ tardi di mattina e Leo era seduto ad una scrivania in una sala della galleria e una sua assistente all’entrata - dato che avevo chiesto di parlare con lui - mi disse di aspettare seduto su un divano squadrato: dopo poco Leo si alzò e mi domandò cosa volevo: gli risposi che avevo qualcosa da fargli vedere, mi rispose che aveva un appuntamento e doveva andare via subito, ma mi chiese ‘ fammi dare veloce un’occhiata ‘: tirai fuori un piccolo lavoro, lui lo guardò, guardò me e mi disse - senza fare nessun commento - ‘puoi aspettare una mezzora circa che dovrei essere di ritorno ???': dissi di si. L’attesa fu più lunga, aspettai una ora e mezza, ma quando tornò mi fece sedere subito davanti alla sua scrivania e si mise a guardare cosa avevo portato: fu in quel momento che mi disse ‘bene!, sono cose particolari… che hai intenzione di fare ???'. Non mi voglio dilungare nella chiacchierata che ebbi con lui, sulla quale più avanti capirai come andò a finire. Fin da quando ero adolescente ho sempre fatto opere d’arte essendo curioso di imparare, di studiare, di capire cosa accadeva in questo ambito, e di capire come funzionava l’arte nelle sedi e gallerie più ‘avanti’ del mondo (a New York, Londra, Parigi, Berlino, ecc. - era per questo che ci andavo almeno una volta l'anno ) e specialmente ero curioso di sperimentare cose nuove e particolari - l’arte, la musica e l'architettura sono state sempre la mia passione. In quelle tre volte che fui a New York in quel periodo visitai tante gallerie e in alcune che ritenevo più congeniali alle cose che facevo io, mi permettevo anche di mostrare al gallerista le mie opere. Per inciso anche in Italia avevo fatto la stessa cosa con alcune gallerie di Milano e Roma. Tutte le gallerie che citi in Amarcord 24 le visitai più volte, come anche la Factory di Warhol e in tutte penso di aver visto e anche scambiato qualche frase o commento con artisti che bazzicavano le gallerie stesse (che poi sono diventati famosi) dato che io non solo entravo, guardavo ed uscivo ma ci rimanevo anche un’ora all’interno, ed in alcune ci rimanevo anche mattinate o pomeriggi interi e ci ritornavo più volte: sono passati quasi 35 anni e le immagini sono sfocate e spesso confuse e non so oggi ben relazionare ciò che vidi negli ambienti di quelle esposizioni, con la faccia dell’artista, e con quello che le stesse opere o persone sono diventate o ciò che hanno assunto, alcuni anni dopo (cioè famose, famosi e conosciutissimi). Come ho scritto prima, l’altro campo cui mi stavo dedicando era la musica: mi ci stavo dedicando anche con impegno finanziario, producendo la mia stessa musica su vinile. Quindi quando Leo castelli mi chiese ‘…che hai intenzione di fare ??’’' risposi che ci avrei pensato, dato che avrei dovuto (come mi suggerì lui), partire con un gallerista in Italia e poi contemporaneamente trasferirmi a New York e operare sul posto, con un possibile sbocco anche nella sua galleria (di Leo). In quel periodo non solo ero impegnatissimo nella musica ma dovevo anche frequentare l’università (architettura a Firenze) e non potevo lasciare tutto quello che avevo già iniziato e in cui avevo investito anche dei soldi e trasferirmi negli USA. Quindi abbandonai il suggerimento di Leo e rimasi in Italia: in sintesi sono diventato famoso in una nicchia di musica contemporanea estremamente particolare e dato che ovviamente quello che conta è anche 'la pagnotta’ iniziai a fare il libero professionista con la laurea in Arch. Con tutto questo voglio far rilevare che se in quegli anni qualcuno con delle idee nuove e particolari fosse andato nei posti giusti, sicuramente avrebbe trovato una sua strada e avrebbe trovato anche quelle gallerie in cui operare e forse riuscire ad emergere e a diventare ‘ricco e famoso’: bastava - secondo me - ripeto - proporre cose nuove e intelligenti e con un substrato culturale che avesse un senso e una solida radice. Per fare questo bisognava vedere, conoscere, informarsi, tenere sottocchio tutto quello che accadeva nelle gallerie più conosciute ma anche in quelle meno conosciute e åavere la sensibilità culturale di discernere e capire ciò che valeva da ciò che erano impiastricciamenti estemporanei, nonché ovviamente ‘capire’ come si muoveva il mercato dell’arte. A quel tempo io ero già abbonato a Flash Art da alcuni anni ed anche ad altre riviste straniere: la tua rivista ritengo essere stata un ottimo insegnante, ho imparato più da Flash Art che se avessi frequentato corsi universitari e corsi all’Accademia (ambienti che, tra l’altro conoscevo, retrogradi, ottusi, e riflettenti l’allegoria di colui che va avanti ma che guarda sempre solo lo specchietto retrovisore). Un ultimo appunto in merito al periodo: mi riferisco a Rammellzee (non so se lo conosci - origini italiane - mulatto - con lavori simili a Basquiat e azioni-performances dove si presentava con il corpo ricoperto da vari oggetti colorati - nome vero ignoto, dato che se lo fece anagraficamente cambiare in Rammellzee) ma nei tuoi giri nella grande mela del periodo, non lo citi: la sua abitazione a TriBeCa in Laigth Street era molto frequentata da varie persone dell’ambito dell’arte e anche da Basquiat e Keith Haring, suoi amici, e dato che lui operava anche in campo musicale, io ci andai alcune volte e ricordo di aver scambiato con lui qualche opinione su arte e musica: ma la sua musica era un genere diverso dalla mia. Il mio campo di indagine era l’ambiente della cosiddetta minimal music (La Monte Young, Philip Glass, Steve Reich ecc. che conoscevo personalmente e con i quali in quegli anni, ma anche prima e anche dopo, ho avuto scambi di vedute sulla musica). Il tuo Amarcord mi ha fatto ricordare quel periodo dove per un paio di mesi all’anno frequentavo New York per vedere e conoscere il ‘sistema dell’arte’ e dalla lettura di quanto tu hai raccontato mi è riaffiorato dalla memoria quanto qui ho descritto. Forse ho scritto troppo, non so se ce l’hai fatta a leggere tutto !!!! Saluti.
Buon 2019
Roberto Donnini
Leo Castelli e Ileana Sonnabend mi hanno insegnato molto
Caro Donnini,
ma cosa hai letto? Nel mio precedente Amarcord ho parlato a lungo di Rammellzee, tralasciando invece i Futura 2000 oppure A One, che all’epoca erano, come Rammellzee, una promessa. Curiosa la tua esperienza americana, anche se ti sei dilungato troppo.
Leo Castelli era un gran signore. Spero di poter scrivere un Amarcord su di lui. Pur essendo il gallerista più importante del secolo scorso, aveva tempo e una parola buona per tutti. Amici, artisti, critici, curatori, colleghi. Straordinario. Lui e Ileana Sonnabend, coppia meravigliosa dell’arte contemporanea. Mi hanno insegnato molto. Purtroppo il loro insegnamento, nella bolgia del mercato d’arte di oggi, è andato perduto.
Ennio Pouchard
Carissimo Giancarlo,
per me, la cosa più bella che mi è arrivata per questo Natale è il tuo Amarcord 24 datato 24 e così pieno di te. La sensazione che provo nel leggerti è che ritrovo nelle tue parole il carattere di quando sei venuto a conoscermi a Roma e la natività di Flash Art profumava ancora di fresco. Te lo dico perché vorrei che mi sentissi vicino, anche se ora è difficile che lo sia fisicamente: sto bene e lavoro, ma ho smesso di viaggiare.
Un caldo buon Natale e felice anno nuovo a te e famiglia,
Ennio
Testimone della nascita di Flash Art
Caro Ennio,
è vero, tu sei stato un testimone della nascita di Flash Art. E a Roma mi sei stato un prezioso collaboratore, contribuendo alle prime traduzioni in inglese della rivista che incominciava a diventare bilingue. E poi qui a Milano hai contribuito alla crescita della rivista con le prime News che elaboravi in redazione e che erano le prime in assoluto nel mondo, perché non esisteva la consuetudine delle notizie nelle riviste d’arte, considerate superflue. Poi è arrivato internet che ha posto fine ad ogni polemica. Ma offrendoci anche qualche opportunità, pur livellando tutto.
Lorenzo Perrone
Caro Politi,
che gioia leggerla. E che bel regalo di Natale l’ultimo Amarcord! Spero che tutto finisca in un libro da regalare ai (pochi) amici che non la conoscono. Però non ha detto nulla di Paolo Buggiani, un autentico e generoso guerriero stellare. Era Buggiani, con la sua vecchia Volkswagen da guerra o sui suoi pattini a rotelle, con addosso le sue armature colorate a sfrecciare per il Village e sputare fuoco e fiamme contro l’arte convenzionale. Non crede?
Un cordiale saluto,
Lorenzo Perrone
Paolo Buggiani? L’ho conosciuto poco
Caro Perrone,
ho intravisto talvolta a New York Paolo Buggiani in galleria con i pattini e col suo costume mimetico. Era molto curios e determinato, anche se non ho mai avuto l’occasione di vedere i suoi lavori di street art. Ma io lo ripeto da sempre: non voglio essere uno storico dell’arte. I miei Amarcord nascono da frequentazioni, occasioni, riflessioni e ricordi di incontri spesso casuali. E su tanti, troppi artisti, con cui ho avuto una amicizia di lunga data (vedi Alighiero Boetti, Tano Festa, Franco Angeli) avrei qualche difficoltà a rammendare i miei ricordi. Di Paolo Buggiani ricordo invece, strano a dirsi, sue splendide mostre del periodo informale alla galleria Schneider a Roma, alla fine degli anni ’50 o ai primi anni ’60. Strani scherzi della memoria.
Angelo Riviello
Caro Giancarlo,
meriti il giusto relax in Versilia, respirando aria un pò più pulita, lontano dall'inquinamento di Milano, dove auguro a te e ad Helena di passare un bellissimo Natale!
Volevo dirti solo una cosa: "ricordati anche degli ultimi", che come i "primi" hanno fatto, e continuano a fare, salti mortali per l'Arte, anche in luoghi non usuali, inventandone dei nuovi, lontani dai soliti circuiti.
Un caro abbraccio!
Angelo Riviello
Non ho avuto la possibilità di seguire il tuo lavoro
Caro Angelo,
forse sarà vero che gli ultimi saranno i primi, ma sino ad ora sono stati i primi a fare la storia. Purtroppo. Anche se Le Goff e Fernand Braudel sono riusciti a ricostruire la storia studiando soprattutto gli ultimi. Ma io non sono Le Goff né tantomeno Braudel e non ho strumenti per parlare di ciò che non ho vissuto in prima persona. Ti ho conosciuto come artista còlto e gentile, ma non ho avuto l’opportunità di seguire il tuo lavoro mentre eri a Milano. Mi spiace.
Giannantonio Radice
Gentile signor Politi, nell’esprimerle la mia solidarietà in presenza della diffida che ha pubblicato (la figura di Getulio Alviani da lei descritta, avendolo frequentato spesso, non poteva essere più veritiera e precisa), le chiedo, se mai ha sufficienti spunti, di ricordare uno degli artisti che personalmente ho più stimato sia come proposta culturale artistica sia come persona della quale, nei diversi incontri intervenuti, ho sempre apprezzato la correttezza, la bontà d’animo e la generosità. Parlo di Claudio Costa immaturamente scomparso e non valorizzato come meriterebbe.
L’occasione mi è cara per augurarle Buone Feste.
Giannantonio Radice - Trento
Claudio Costa e l’opera dispersa
Caro Giannantonio,
ho conosciuto bene Claudio Costa. Fui partecipe anche della sua prima mostra a Genova, nel 1969, nell’allora mitica galleria La Bertesca. E talvolta, invitato da lui anche nell'ottimo ristorante di sua moglie Anita, a Rapallo. Eravamo abbastanza amici. Sono stato anche testimone, ahimè, a Documenta 6 di Kassel, di una sua crisi di nervi per una collocazione a suo dire inappropriata. Una forte crisi che lo portò in un ospedale psichiatrico di Kassel. Dopo quell’esperienza tedesca a Genova ebbe altre ricadute, sino al suo ricovero definitivo all’Ospedale psichiatrico di Quarto dei Mille, dove organizzò uno straordinario laboratorio di arteterapia. Sono stato un paio di volte a visitarlo e mi sembrò tranquillo, addirittura realizzato, con il suo laboratorio. molto seguito a altri pazienti. Ma nella storia di un artista, se non c’è una galleria professionale alle spalle, l’opera si disperde in mille rivoli, senza approdare a nessuna consacrazione. E’ la storia di tantissimi artisti. Credo non solo italiani.
Antonella Laganà
Sono felicissima caro Giancarlo,
per questo riconoscimento che hai ricevuto, un premio ampiamente meritato !
In questa società in cui l’Arte Vera è stata azzerata, tu solo ci hai trasmesso la vita combattuta, intensa, fuori dalle righe dei grandi artisti che hai conosciuto e soprattutto amato. La tua testimonianza infiamma le anime e stimola alla creazione. Infatti non possono esistere creatori nel conformismo e nell'ignoranza.
Gli artisti sono esseri sensibili, ribelli, fedeli solo a se se stessi e all’Arte, cui dedicano interamente la loro esistenza. E anche tu hai l'animo del grande artista. Grazie Giancarlo
Antonella Laganà
L’uomo che sta dietro l’artista
Cara Antonella,
a me è sempre piaciuto scoprire l’uomo che c’è dietro l’artista. Spesso l’osservatore dimentica che dietro un’opera o un capolavoro, c’è un uomo o una donna con i suoi problemi quotidiani. Talvolta con il mal di testa o di denti o di pancia, la necessità di correre a far la spesa per la cena o i suoi problemi sentimentali. Quante volte Leonardo ha interrotto La Gioconda perché era affamato o febbricitante, o per un bisogno corporale o perché voleva far l’amore con il suo garzone Salaì. E pare anche che Lisa Gherardini (Monna Lisa), sotto il sorriso enigmatico, nasconda una identità maschile. E nell’occhio sinistro delle Gioconda, si intravede una S (Salaì) mentre in quello destro una L (Leonardo). E in francese Mon Salaì è l’anagramma di Monna Lisa. Non credi che queste attenzioni particolari aiutino a leggere l’opera? O a renderla più curiosa?
Aurelio Gaiga
Caro Direttore.
Ho appena acquistato l'ultimo numero di Flash Art e con mio grande dispiacere ho appreso della decisione di chiudere la rubrica "Lettere al direttore". "Lettere" che erano la prima cosa che leggevo quando ancora studente del Liceo Artistico di Verona ( anni '80 ) andavo col mio motorino ( un Ciao ) ad acquistare Flash Art in un'edicola della stazione ferroviaria di Verona, anche perchè la diffusione della rivista all'epoca, non era così capillare come oggi. Ricordo che comperavo Flash Art perchè anche se non sempre tutto era per me all'epoca comprensibile ( ma sono sempre stato attratto da ciò che non capivo pienamente ) era comunque qualcosa di nuovo, di mai visto rispetto all'arte del passato che studiavo al Liceo ( di cui non voglio negare per carità l'importanza ). Delle tue "Lettere" ho sempre apprezzato la schiettezza o schietta sincerità, una cosa che, per come la vedo io, è o dovrebbe essere fondamentale nella vita.
Per questo motivo sono qui a richiederti l'invio della rubrica "AMARCORD", che tu stesso definisci l'erede naturale delle "Lettere al Direttore. Continuerò ovviamente a comperare anche Flash Art per avere sempre una visione delle ultime tendenze nel mondo dell'arte. Un caro saluto da un pittore della domenica, ma anche del sabato e di qualche altro giorno infrasettimanale, lavoro permettendo.
Aurelio Gaiga
Con Amarcord non perderai nulla
Caro Aurelio,
ma possiamo restare in contatto con Amarcord e i vari contributi.
Credo che non perderai nulla. Anzi, ci sentiremo più frequentemente. Grazie comunque.
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