Amarcord 6
Incontri, Ricordi, Euforie, Melanconie
di Giancarlo Politi
di Giancarlo Politi
Alberto Burri
Quando ho conosciuto Burri?
Quando ho conosciuto Alberto Burri? Non lo so. A me sembra di conoscerlo da sempre. Stessa faccia, stessa razza, recita una massima che ho sentito in Grecia. Io sono nato a circa 60 km in linea d’aria da Città di Castello, dove è nato Burri, quindi abbiamo respirato la stessa aria e i medesimi odori e profumi, vissuto gli stessi paesaggi, pescato le rane e le anguille negli stessi fiumi, frequentato la stessa tipologia di persone. E ditemi se questa non è una conoscenza. Conoscenza millenaria. Dunque io e Burri ci conosciamo da sempre. Da prima di nascere. Però forse a pensarci bene, la prima volta lui venne a trovarmi alla Fiera Letteraria a Roma, dove lavoravo e su cui avevo scritto una recensione positiva sul suo lavoro (cosa rarissima in quei tempi: per le sue opere alla Galleria Nazionale ci fu anche una interpellanza parlamentare di protesta). Mi invitò a cena dal Pollarolo, un modesto ma simpatico ristorante/trattoria in via di Ripetta, a Piazza del Popolo. E poi non so perché, ma a Roma ci incontrammo sempre dal Pollarolo, forse perché la cucina semplice e sapida di allora gli ricordava quella umbra. Andavo appena potevo nel suo studio in via Grottarossa, appena fuori Roma, bello e scomodo come tutti i suoi studi e dove più tardi ebbe lo studio anche Piero Dorazio. Alberto Burri era simpatico ma di poche parole. Ti guardava e sorrideva in silenzio. L’opposto di Lucio Fontana; se Lucio era un animale sociale, Burri era un animale selvatico: grezzo e brusco come i contadini umbri, sospettoso e chiuso in se stesso, timoroso e convinto che tutti volessero copiarlo o defraudarlo (una volta mi mostrò un suo quadro che a prima vista poteva sembrare un taglio sulla tela: “vedi”, mi disse con un sorriso, “Fontana ha visto questa tela a Venezia e l’ha apprezzata molto. Da quella volta sono nati i suoi tagli”). Mi mostrò anche una serie di cellotex e con un gran sorriso sonoro come quello di un contadino umbro mi disse, “questi cellotex a saperli guardare sono pornografia pura”.
Burri e Piero della Francesca
Tra gli artisti stimava solo Afro e Ceroli. Ma il suo unico e vero riferimento era Piero. Piero della Francesca, di cui fece anche restaurare a sue spese una chiesetta vicino a Sansepolcro. E gli piaceva misurarsi con lui. A Città di Castello aveva studio e abitazione su una collinetta inaccessibile, che si poteva raggiungere unicamente tramite un fuoristrada guidato da lui, sempre vestito da cacciatore o da contadino, con giacca di fustagno. Burri amava la solitudine e il silenzio, di cui in parte i suoi quadri sono espressione. Essendo laureato in medicina aveva partecipato alla guerra come ufficiale medico. Io rivedo su alcune sue opere (i sacchi) le ricuciture raffazzonate delle ferite di guerra su cui lui era costretto a intervenire, anche se negò sempre ogni riferimento. Venne fatto prigioniero in Africa e trasferito con altri tremila ufficiali che come lui avevano rifiutato di rinnegare l’esercito per cui aveva combattuto, nel campo di concentramento di Hereford, in Texas. E di questo suo rifiuto lui ne andò sempre orgoglioso. “Dopo aver giurato fedeltà al Regio Esercito, figurati se potevo ripudiare la mia idea”, mi diceva. “Io non sono fascista ma non ripudio nulla del mio passato: figurati poi con gli americani”. In Texas venne a contatto con la cultura (anche artistica) americana e vide per la prima volta camion di sacchi di juta di farina o grano, del piano Marshall con grandi scritte in nero che indicavano la destinazione degli aiuti: sacchi che poi usò per le sue opere. Questi camion nel dopoguerra erano molto popolari anche in Italia e io bambino li ricordo passare sulla Flaminia, davanti a casa mia a Trevi. A pensarci ora sembravano i sacchi di Burri che viaggiavano su un camion. Molto suggestivi anche allora, soprattutto per ciò che contenevano e promettevano. Anche l’attento Francesco Bonami è caduto nell’errore di pensare che Burri iniziò a lavorare con i sacchi nel campo di concentramento americano. È un errore. Burri iniziò a dipingere nel campo di concentramento e dipinse molte opere, soprattutto acquerelli con suggerimenti tecnici del Capitano Gambetti di Genova, pittore professionista prima della guerra. Dipinti e acquerelli che lui spedì a Città di Castello ma che in seguito distrusse, lasciandone solo cinque. Ne vidi due da lui e due a casa dell’artista e comune amico Brajo Fuso di Perugia: due piccoli dipinti figurativi, vagamente naïf. Insomma divertenti ma non proprio capolavori. Una volta mostrandomi queste opere mi disse ridendo: “come vedi non avevo scelta, non sapendo dipingere non mi restava che diventare un artista astratto”.
Il serpente a cena
Nel campo la vita era difficile e soprattutto noiosa, anche se Burri trascorse gli ultimi tempi a dipingere i suoi quadretti figurativi che richiamavano Città di Castello e le colline umbre. Diventò amico degli scrittori Giuseppe Berto e Gaetano Tumiati con cui condivise, lui sempre silenzioso, qualche momento di conversazione interessante. Sia Tumiati che lo stesso Burri raccontano quando trovarono un serpente che Burri scuoiò e cucinò su una griglia improvvisata con la brillantina. Nel campo negli ultimi tempi si soffriva la fame e tutto diventava appetibile anche. “Era molto buono”, mi confermò Alberto, “ad avercene”.
Burri era un uomo leale ma non generoso. Il figlio di Nemo Sarteanesi (Nemo, pittore locale suo amico di sempre) per anni fu un assistente e soprattutto factotum molto apprezzato di Burri. “Maestro, quando mi sposo mi farà l’omaggio di una sua piccola opera?” “Ma certo, stai tranquillo”, rispose Burri, “Ti farò un magnifico regalo”. E la mattina del matrimonio questo giovane si trovò sotto casa (o in concessionaria, non ricordo) una fiammante vettura, il modello più bello e costoso dell’Alfa Romeo. Inutile dire che il giovane apprezzò questo regalo molto più di un’opera. Ma questo gesto testimonia l’attaccamento di Burri alle sue opere, meno al suo denaro.
Mi pare che fosse il 1952 e Burri voleva effettuare un viaggio a Parigi, ma non aveva i mezzi. Un amico (forse il parroco?) organizzò una piccola mostra a Città di Castello con dieci sacchi, chiedendo a dieci amici di acquistarli a 200 mila lire cadauno. Burri incassò 2 milioni e partì per Parigi. Alcuni anni più tardi, quando i sacchi iniziarono ad avere un certo valore, alcuni amici provarono a rivendere l’opera acquistata ma si accorsero che non era firmata. Alla richiesta della firma il Maestro rispose: “per 200 mila lire volete anche la firma? Io riconosco che l’opera è mia ma non la firmo”. Duro come una roccia anche se gentile con tutti, in realtà era ostile a tutti. Era stato molto amico di Edgardo Mannucci che in momenti di difficoltà lo aiutò. E questo Burri non lo dimenticò mai. A quei tempi Mannucci possedeva alcune delle sue opere più belle, tra le più costose del mercato nazionale. Un famoso collezionista di Brescia degli anni Settanta, Mario Dora, amico anche di Guttuso, di cui possedeva alcune delle opere più significative, sentendo parlare me con Antonio Spada (allora collezionista di riferimento del contemporaneo) della difficoltà di comperare opere di Burri direttamente da lui, si recò a Città di Castello, convinto di tornare a casa con alcune opere. “Vorrei questo e questo e questo. Ecco un assegno in bianco”. Ma Burri lo invitò a pranzo e respinse l’offerta. Il grande collezionista si intestardì e Burri alla fine cedette. Ricordo che Mario Dora teneva esposti alcuni bellissimi sacchi e plastiche bruciate sulle pareti dei suoi lussuosi uffici di Brescia. Diventò amico di Burri con cui talvolta andava a caccia. E ogni anno, per Natale, riceveva in omaggio (come altri collezionisti importanti) una piccola opera (10x10?), una sorta di miniatura delle grandi opere. Grandi capolavori di piccole dimensioni.
Quando mi recavo da lui a Città di Castello, mi portava a pranzo sempre nella stessa trattoria, mi pare si chiamasse Remo, dove il Maestro aveva il suo tavolo fisso. Un giorno, dopo molte fatiche per metterli insieme, arrivai con un assegno di 20 milioni. Con me c’era anche mia moglie Helena, allora giovanissima e bellissima, che Burri guardava sempre con piacere e interesse (perché ad Alberto piacevano molto le donne ma come ogni contadino umbro che teme la moglie, aveva un rapporto molto discreto e riservato con loro; oltre alla moglie Minsa Craig, ufficialmente Alberto ebbe un rapporto storico con Giovanna dalla Chiesa, anche se io sapevo che talvolta, con discrezione assoluta, ospitava alcune donne nel suo studio a Città di Castello). Mostrandogli l’assegno gli dissi: Alberto, questo è il massimo che posso offrirti e mi sono già indebitato. Dammi l’opera che tu ritieni opportuno per questa cifra. “Giancarlo”, rispose, “ma vuoi scherzare, ti pare che ti venda un’opera? Stai tranquillo, te ne preparo una espressamente per te e la prenderai una prossima volta che verrai a trovarmi”. Ma una prossima volta non ci fu e io non ebbi mai l’opera di Burri. La distanza tra Milano e Città di Castello era faticosa da colmare. Ma in quel caso sbagliai a non insistere, perché certamente ora avrei l’opera di Burri.
Un giorno mi mostrò dei quadretti di un suo giovane amico e collega di Città di Castello, Nuvolo (Giorgio Ascani) realizzati con stoffe cucite insieme e dalle forme che richiamavano indubbiamente quelle di Burri, il quale ridendo commentò: “come vedi anche qui in casa mi copiano”.
Alberto Burri, grande tifoso del Perugia
Nel mese di agosto del 1984 ero a Trevi, in vacanza quando lui mi chiamò: “vuoi venire alla partita amichevole Perugia Napoli? Esordisce un giovane che pare sia un fenomeno, Diego Armando Maradona”. In realtà si trattava della primissima partita di Maradona in Italia, arrivato pochi giorni prima dal Barcellona. Burri era un tifoso acceso del Perugia. Nello spogliatoio mi presentò l’allenatore Agroppi e alcuni giocatori, tra cui Novellino. Con Agroppi discusse amichevolmente anche di tattica. Dalla tribuna con posto assegnato, vidi insieme a Burri per la prima volta Maradona, che in realtà non fece molto e la partita terminò zero a zero. Era la seconda partita del Perugia che vedevo: precedentemente, una decina di anni prima, avevo visto Brescia Perugia, invitato da Guglielmo Achille Cavellini. Ma in entrambi i casi trovai lo stadio, anche se in tribuna, scomodo. Troppo caldo, troppo freddo, non si vedevano abbastanza bene i giocatori. Decisi che il miglior stadio era il mio divano davanti alla TV.
Con Helena lo visitammo anche a Los Angeles, dove aveva casa e studio. Come sempre le abitazioni di Burri erano semplici ma molto belle, spesso con panorami mozzafiato (ricordo quella di Beaulieu, sulla Costa Azzurra, con una vista bellissima sul golfo). A Los Angeles lui andava spesso perché lì viveva sua moglie, Minsa, che sembra fosse una ballerina. Io la vedevo sempre con il tutù, eterea e volteggiante per casa, con un’aria lievemente sciroccata. Ma sempre sorridente e assente. Ma pare che Burri fosse molto legato a lei.
Con l’acuirsi dei suoi problemi fisici dovuti all’asma, ci vedemmo sempre meno. Passai a salutarlo a Beaulieu, con Antonio Sapone, suo amico e gallerista di Nizza, che l’aveva aiutato a trovare quella magnifica location. Lo trovai un po’ depresso perché voleva andare a Los Angeles ma a quei tempi si fumava ancora in aereo e lui con la sua asma non poteva affrontare un viaggio così lungo con il fumo. E ricordo che malediva le leggi che permettevano di fumare in aereo, dimenticando che lui, sino a pochi anni prima, era stato un accanito fumatore, di sigarette e poi di pipa.
Nel febbraio 1995 mi telefona Sapone dicendomi che Burri era morto e che non si era celebrato alcun funerale. Minsa Craig, la moglie ebreo-cinese, che sopravvisse a Burri di otto anni, se ne sarebbe tornata a Los Angeles pochi giorni dopo. E da quel momento inizia il giallo delle opere (almeno trenta cretti) che erano nella casa e che poco dopo non c’erano più. E comincia anche il lungo contenzioso tra la Fondazione Burri e Minsa Craig che rivendicava l’eredità di tutte le opere del Maestro. Ma questa è un’altra storia. Che non mi riguarda.
Francesco Vezzoli
DI VI NO!
Francesco, ogni tua parola, ancorché sillabata, è miele per i miei orecchi.
Boris Brollo
Caro Giancarlo, posso confermarti quel tuo giudizio sui tagli di Fontana, nati da un’idea più erotica che quantistica. Me lo disse l’amico critico Berto Morucchio già segretario di tre edizioni del Premio Marzotto con Presidente Pierre Restany. Berto Morucchio avendo firmato diversi manifesti Spazialisti con i veneziani De Luigi e Ambrosini e inoltre amico del Fontana che nel 1962 partecipò al Marzotto e ne fu frequentatore quando lavorava per la ditta Tosi a Milano. Egli mi disse, a proposito delle sue Pillole o di certe slabbrature che esse erano nient’altro che delle “fiche” e così le vedeva Lucio Fontana.
Ad maiora. Boris Brollo
Grazie per la tua conferma caro Boris. Perché visto il testo su Burri, non vorrei passare per un maniaco che vede sesso in ogni artista. Anche se in realtà ce ne sono molti. D’altronde la storia dell’arte è anche una storia della sessualità..
Liuba
Caro Giancarlo
grazie di queste bellissime pagine di memorie e ricordi, questi ritratti di persone e questa bellezza del ricordare, necessaria e vitale. Grazie.
Mi ha incuriosito la tua frequentazione coi poeti, di cui parli nello scorso amarcord, anche perchè mi domando allora se hai frequentato o conosciuto mio zio, Elio Pagliarani (fratello di mia mamma, il lato romagnolo della mia famiglia a cui sono più legata :) che ha vissuto a milano negli anni Cinquanta e poi dal 1960 si è trasferito a Roma.... sarei felice di avere notizie in proposito e magari qualche piccolo altro amarcord! Sembra che in quel periodo c'era una grande osmosi fra artisti e poeti, cosa che oggi mi sembra si sia persa (anche se siamo nell'epoca dove in teoria tutto è trasversale, ma poi la troppa comunicazione rinchiude le persone nei loro differenti orticelli...). Mio zio ricordo che mi raccontava che nei tempi in cui viveva a Roma (e abitava in via Margutta) aveva molti più amici “pittori” che poeti :)
Ti mando un caro abbraccio
Liuba
La Ragazza Carla, di Elio Pagliarani
Cara Liuba, certo che ho conosciuto tuo zio Elio Pagliarani. Nella Roma degli anni Sessanta egli, insieme ad Alfredo Giuliani, Antonio Porta. Edoardo Sanguineti e Nanni Balestrini era un esponente del gruppo dei NOVISSIMI, il punto di riferimento della poesia sperimentale italiana. La Ragazza Carla di Elio Pagliarani, un bellissimo (per l’epoca, oggi meno intrigante, a significare che il tempo fa poche eccezioni) racconto in versi, dissacrante e “slirizzante” come i tempi richiedevano: la diciassettenne Carla Dondi, che vive in una modesta abitazione alla periferia di Milano, con la madre pantofolaia, frequenta le scuole serali per diventare dattilografa e subito dopo aver appreso a battere a macchina con dieci dita, trova un impiego. Timida, subisce respingendole le avances del capo. Ma poi, per non perdere il lavoro è costretta a chiedere scusa. Così, inghiottita dal mondo, diventa una donna emancipata dalle calze nere e il rossetto, acquisisce sicurezza nel lavoro e si integra con i suoi colleghi.
Bellissima la chiusura con un endecasillabo tragico “pietà di noi e orgoglio con dolore”. Tuo zio frequentava, come molti di noi, il gruppo di artisti di Piazza del Popolo, con Schifano, Angeli, Festa, ma soprattutto il gruppo dei poeti che facevano capo alla Libreria Feltrinelli. Ricordo che seguivo e guardavo con invidia quel gruppo, ammirato e osannato da tutti i radical chic di Roma, compreso Alberto Moravia. Io ero fuori da quel gruppo privilegiato e mi sentivo tanto come la ragazza Carla di tuo zio.
Ma io non potevo indossare le calze nere e mettere il rossetto.
Beppe Finessi
Ciao Giancarlo
ti leggo, sorrido e imparo, e penso al nostro caro GET! Ti abbraccio
beppe
Caro Beppe, sì, il nostro caro Getulio Alviani, per molto tempo mio fratello, che però, ho scoperto ora, era uomo pieno di misteri e di scheletri nell’armadio. Chissà se riuscirò a scrivere un Amarcord su di lui. Troppo recente il distacco ma soprattutto troppo amare sarebbero alcune riflessioni. Lasciami meditare.
Maurizio Vitiello
Eccellente, misuratissimo “Amarcord” su Lucio Fontana, che ho, golosamente, letto. Caro Giancarlo, vorrei leggerli tutti per apprendere una vita che non ho vissuto. Li raccoglierai in un libro? Salutissimi, ora, da Procida. Maurizio
Alessandro Jasci
Carissimo Giancarlo
Ho letto con grande piacere i tuoi Amarcord.
Sono ricordi coinvolgenti e affascinanti che mi fanno rivivere momenti "eroici".
Durante gli anni dell’Accademia di Belle Arti di Firenze, 1963-67, vivevo molto vicino alla libreria Feltrinelli. Erano anni di grande cambiamento storico e culturale. All’interno della libreria Feltrinelli, in uno spazio espositivo, venivano proposti le opere del gruppo di poeti e artisti che si interessavano alle potenzialità espressive della parola, accompagnata dall’immagine, dando vita alla Poesia Visiva. Ricordo che Eugenio Miccini era molto attivo e che con Lamberto Pignotti fondarono il gruppo '70 al quale poi prenderanno parte anche Ketty La Rocca, Luciano Ori, Giuseppe Chiari e altri. Quasi tutti i pomeriggi andavo lì per ascoltare i discorsi di Eugenio Miccini e gli altri del gruppo. Dopo l’Accademia, nel 1969 mi trasferii a Milano.
Per Flash Art, dietro un tuo invito, avevo scritto per la rubrica Amarcord, nel n° 284 del mese di giugno 2010: “Milano ’70 un’occasione mancata” e nel n° 305 del mese di ottobre 2012: Milano capitale dell’arte in Europa 1969-1973”.
Ora leggo su Luciano Inga-Pin dei giudizi non molto positivi. Certo che Luciano aveva continuamente bisogno di soldi per poter far vivere la sua Galleria, e difficilmente, in quegli anni vendeva qualche opera. Ricordo che Claudio Abate aveva fotografato la mia performance della mostra Situation Concepts ad Innsbruck nel 1971 e lasciò la foto alla galleria Diagramma per essere consegnata a me, ma alla mia richiesta Luciano mi disse che l’aveva venduta ad un collezionista francese per pochi soldi. Nel 1975, quando organizzò la mostra “Campo Dieci – una generazione e il mezzo fotografico” io portai in Galleria 3 opere dal titolo “Narciso” che non furono mai riconsegnate. Conoscevo molto bene le difficoltà che aveva per vivere Luciano e anche il non mercato dell’arte di quel periodo. Tutti gli artisti che esponevano da lui si dovevano pagare il biglietto d'invito e i francobolli.
Ecco che cosa scrissi nel n° 284 di Flash Art. “Luciano Inga-Pin è stato forse il personaggio che ha cercato di più, con il suo intuito e la tenacia, di far diventare Milano, negli anni ’70, la capitale dell’arte europea. Con l’apertura della galleria Diagramma di via Borgonuovo, vicino alle gallerie di Toselli e Lambert, e poi con il trasferimento della galleria al terzo piano di via Pontaccio, Inga-Pin incominciò un percorso artistico-espositivo che era unico in Europa. In un’opera del 1972 di Franco Mazzucchelli dal titolo “Caduta di pressione” (una tabella indica gli indici di frequenza dei visitatori abituali della Galleria Diagramma e la loro costante sottrazione d’ossigeno), dove è possibile leggere che io ero uno dei frequentatori più assidui, insieme a un lungo elenco di personaggi come Six Friedrich, Daniel Templon, Annemarie Verna, Salvatore Ala, Willy Bongard di Art Aktuell e moltissimi altri. Questo fa capire l’importanza della Galleria Diagramma che, con la sensibilità di Luciano verso il corpo e il diverso, iniziò la stagione della Body Art. Per molti giovani artisti che lavoravano con la fotografia e il corpo, fu allora l’unico spazio espositivo europeo di forte richiamo”.
Giancarlo ora mi fermo per non annoiare e spero che per la fine dell’anno sarà pronto il libro dove racconto la Milano degli anni Settanta e tutto il seguito.
Un abbraccio!
Alessandro Jasci
Sarebbe benvenuto un tuo libro, testimonianza diretta, su quella Milano e quel gruppo (tu, Tonello, Trotta….) ora quasi dimenticato. Eppure so che di cose ne avete realizzate. Auguri.
Laura Cherubini
Carissimo Giancarlo, molto bello anche questo Amarcord! Non ho conosciuto Fontana, quando è scomparso io andavo a scuola, ma mi sono molto commossa al ricordo di Gino Marotta che mi manca molto... di Pastori mi ha parlato tanto Pistoi...
Continua così, è il modo più bello di fare la vera storia dell’arte...
baci laura
Laura, su Gino Marotta sto preparando qualcosa. A lui debbo veramente molto. Mi fece conoscere Lucio Fontana, Dino Gavina, Corrado Cagli, Edgardo Mannucci, Emilio Villa. Che mi hanno dato e a cui debbo tanto. Soprattutto Gino. Per Remo Pastori occorrerebbe un tomo della lunghezza di Guerra e Pace. Il più straordinario e geniale bugiardo che abbia mai incontrato. Ma a cui, per la sua generosità che rasentava la follia, non si poteva rimproverare mai nulla.
Sandro Giorgi
Caro Giancarlo, grazie per i tuoi Amarcord, sono essenziali per il mondo dell'arte da noi vissuto. Pezzi unici. I miei compliment, in ricordo anche degli incontri con Getulio e le Apuane. Sandro Giorgi
François Inglessis
Bello! Come spesso succede il tempo crea una patina di sacralità e significati retorici intorno al lavoro degli artisti, patina che oscura i lati prosaici e casuali del loro fare.
Questi tuoi Amarcord restituiscono, un po’ addolciti come tutti i ricordi, quel senso di confusione e promiscuità che è proprio della vita e quindi del fare Arte che come tutte le attività è appunto umana, quindi un incerto intreccio tra volontà e destino di cui, a volte, solo a posteriori si riescono a ripercorre i sentieri.
In attesa di Burri...
François
Ps: purtroppo certe argute guasconate malandrine oggi sono irripetibili, tutto è troppo professionalizzato e muscolare, l’agilità individuale è in declino, ahi noi!
Marcello Jori
Giancarlo caro, che fortuna, che tu stia scrivendo gli “Amarcord”... Grazie Marcello.
Virginia Ryan
Caro Giancarlo,
leggendo con enorme piacere e curiosita' questi tuoi acutissimi amacord, mi accorgo di una strana nostalgia per momenti che non ho mai vissuto. E' tutto vivo/vitale, questo mondo re-creato.
Un giorno spero di prendere un cafe di nuovo con te!
Virginia
Cara Virginia, Trevi è lontana, ahimè. Ogni giorno più lontana. Ma ne sento la presenza e la mancanza. Soprattutto delle sue colline dove ho scorrazzato da bambino, o dell’eremo di Cancelli dove abbiamo cercato di ricostruire l’Umbria dell’arte. Che invece (giustamente) è dura come un sasso e inamovibile. E Trevi resterà sempre il luogo privilegiato per la sagra del sedano e della salsiccia. Meglio della brutta arte. Ma adesso cerco di spegnerne ogni ricordo. Perché “qui e ora” sono a Milano.
Giorgio Guastella
Carissimo Direttore, che soddisfazione per me leggere i Suoi ricordi su Fontana! Nel 2006 partecipai come relatore a un convegno nazionale sulle arti plastiche nel sec. XX e fui quasi lapidato per lesa maestà e sacrilegio per aver affermato che i tagli e i buchi dei concetti spaziali rappresentano fesse e ani... Dorfles (anch'egli relatore a quel convegno) si stizzì e mi rimproverò come il maestro elementare rimprovera lo studente asino... io naturalmente incassai, anche per rispetto ai suoi 96 anni... oggi Lei mi ha "risarcito"! Grazie! Giorgio Guastella
Francesco Rovella
Bellissimo ricordo. Complimenti. Ah se le riviste d’arte raccontassero così gli artisti quanto cambierebbe il rapporto dell’arte moderna e contemporanea con il pubblico.
Distinti saluti
Francesco Rovella, Cartabianca
Alvise Chevallard
Nello Amarcord 1 citavi, tra gli altri, Franz Paludetto che nelle sue Gallerie e poi al Castello di Rivara ha anticipato e presentato i più importanti artisti italiani (dai primi Pascali, a Mondino, Cattelan, Boetti, etc…) e internazionali (Herman Nitsch, gli espressionisti tedeschi, americani di San Francisco e Los Angeles, poi nucleo fondante della Collezione Sandretto Re Rebaudengo, primo Felix Gonzalo Torres,etc…). Hai qualche ricordo sul genere di quello su Remo Pastori, della cui esperienza a Calice Ligure, Franz è stato protagonista cercando, alcuni anni fa, di recuperarne la memoria?
Ciao e Grazie
Alvise Chevallard Torino
Franz Paludetto è stato un altro dei personaggi folli dell’arte. Lo ricordo a Calice Ligure quando organizzò la performance del matrimonio tra Nanda Vigo e Renato Mambor. Bellissima. E ricordo la prima mostra di Roman Opalka, presentatogli da Marco Gastini. La sua programmazione al Castello di Rivara è stata meno felice, ma forse, visti gli spazi impossibili, ancor più affascinante. Il Castello di Rivara era una galleria, un rifugio, un dormitorio e anche un refettorio per artisti. Credo molto eccitante per chi l’ha vissuta. Peccato che Franz non sia stato riconosciuto come sarebbe stato giusto a Torino.
Alfredo Pirri
caro giancarlo
leggerti mi fa sedere e riposare
grazie. Alfredo
Alessandro Attilio Stucchi
Caro Giancarlo
ho 43 anni e i suoi Amarcord per me sono letteralmente manna dal cielo, me li divoro e vorrei un libro dove trovarli tutti raccolti, sa quei libri di 800 pagine. Iniziai all’età di 18 anni a leggere Flash Art grazie ai suggerimenti/insulti che ricevetti da Luciano Ing-Pin nella sua galleria di via Pontaccio.
Oggi a distanza di anni ho capito che tra quelli che avevo percepito come insulti in realtà Inga-Pin mi diede i migliori consigli in senso assoluto che abbia mai più ricevuto da un gallerista e per i quali ancora oggi artisticamente vivo di rendita.
Leggere i suoi racconti Giancarlo, che sono per me della mia generazione l'unico vero modo per entrare in quegli studi, in quelle osterie, in quei dibattiti in quei tafferugli culturali è davvero grande e preziosa cosa e la devo ringraziare sinceramente.
Quando lei accenna a Luciano Inga-Pin mi emoziono perchè se pure giovane, mi sembra di aver toccato con un dito un mondo e anche aver fatto parte di qualche episodio che ha lo stesso sapore di quello che lei racconta e che mi affascina.
Le volevo solo confermare che ho molta stima per il suo lavoro che, come i consigli di Luciano non avevo proprio compreso da subito quando iniziai a leggere Flash Art. Con stima
Alessandro Attilio Stucchi
Bruno Graziani
Buongiorno Direttore,
io in quello stabilimento di Gavina ci torno spesso (ora sede della Knoll), è impressionante la modernità che offre ancora quella struttura. Ora con la variante della strada è visibile ma quando era nato non era visibile dalla vecchia Via Flaminia studiato appositamente da Dino Gavina un genio .Entrando e conoscendo la storia di quel capannone, sapendo che è stata una fucina di idee di tantissimi Maestri si torna di almeno 50/60 anni indietro con la memoria, il tempo lì in quel capannone si è fermato si è in qualche modo impresso nei muri nel pavimento nell’aria. Bellissimo Amarcord
Complimenti
Bruno Graziani
Alba Savoi
Caro Giancarlo Politi, ti ringrazio!!!
Quando ti leggo, tra le altre cose, mi diverto e non è poco di questi tempi.
A proposito di Amarcord 5. Tra le tante interpretazioni sul taglio di Fontana.
quella citata è sicuramente la più sincera. Uscita dal "Cuore", allora forse si chiamava coì.
Poi la mente, ha anche pensato ed è nato "Lo spazialismo".
Comunque mi piacerebbe avere la raccolta!!! Alba Savoi
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